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Channel: Repubblica della Abkhazia – Pagina 342 – eurasia-rivista.org
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Che cosa è l’ALBA?

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È necessario avanzare verso la stabilità del Continente: nel campo politico, in quello economico e in quello sociale, questo modello dell’ALBA  punta verso la stabilità e riprendendo le parole di Cristo: «L’unico sentiero verso la pace, è la Giustizia; la fratellanza, l’uguaglianza… non ci sarà pace, finché non ci sia giustizia nel mondo»

Hugo Chávez Frías (*)

CHE COSA È L’ALBA? (1)

  1. I. Cosa s’intende per ALBA

L’Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA) è, fondamentalmente, un modello d’integrazione dei popoli dei Caraibi e dell’America Latina, i quali condividono spazi geografici, vincoli storici e culturali, necessità e potenzialità comuni.

Si tratta, in sostanza, di uno schema d’integrazione basato sui principi di cooperazione, solidarietà e complementarità, che nasce come alternativa al modello neoliberale, il quale non ha fatto altro che approfondire le asimmetrie strutturali e favorire l’accumulazione delle ricchezze a minoranze privilegiate a scapito del benessere dei popoli.

L’ALBA poggia sulla creazione di meccanismi finalizzati a creare vantaggi cooperativistici tra le nazioni che consentano di compensare le asimmetrie esistenti tra i paesi dell’emisfero. Si muove contro gli ostacoli che impediscono la vera integrazione, come possono essere la povertà e l’esclusione sociale, lo scambio ineguale e le condizioni inique dei rapporti internazionali, l’accesso all’informazione, alla tecnologia e alla conoscenza; aspira a creare consensi, per ripensare gli accordi d’integrazione in funzione del raggiungimento di uno sviluppo nazionale e regionale endogeno che sradichi la povertà, corregga le ineguaglianze sociali e assicuri un innalzamento della qualità della vita dei popoli. In questo senso, la costruzione dell’ALBA nei Caraibi rafforzerà lo sviluppo endogeno, sovrano ed equilibrato dei paesi della regione.

Il suo principio si basa sulla cooperazione tramite fondi di compensazione per correggere le disparità che pongono in svantaggio i paesi meno sviluppati di fronte a quelli più sviluppati.

Per questo motivo la proposta dell’ALBA attribuisce priorità all’integrazione latinoamericana e alle negoziazioni tra alleanze subregionali, aprendo nuovi spazi di consultazione, al fine di approfondire la conoscenza delle nostre posizioni e identificare spazi d’interesse comune che consentano di costituire alleanze strategiche e presentare livelli simili nel processo di negoziazione.

L’ALBA è una proposta intesa a creare consensi che implichino il ripensamento degli accordi d’integrazione, in funzione del raggiungimento di uno sviluppo endogeno nazionale e regionale che contribuisca ad eliminare la povertà, corregga le ineguaglianze sociali e assicuri una crescente qualità di vita per i popoli. La proposta dell’ALBA si somma al risveglio della coscienza espressa nell’emergenza di una nuova leadership politica, economica, sociale e militare in America Latina e nei Caraibi; oggi più che mai, è vantaggioso effettuare l’unità latinoamericana e caraibica.

Il presidente Hugo Chávez nel suo intervento all’ALADI (2) ha sintetizzato l’ideologia dell’ALBA nei seguenti punti:

  • Promuovere la lotta contro la povertà.
  • Preservare l’autonomia e l’identità latinoamericana.
  • Il trasferimento di tecnologia, l’assistenza tecnica.
  • La formazione di risorse umane.
  • Diritto di precedenza alle imprese nazionali come fornitrici degli enti pubblici.
  • Gli accordi non potranno essere ostacolati alla diffusione del progresso scientifico e tecnologico.
  • Affrontare l’arbitrio dei monopoli e degli oligopoli mediante efficaci meccanismi che assicurino una sana concorrenza.
  • Gli investitori stranieri non potranno citare in giudizio gli Stati per la gestione dei monopoli statali d’interesse pubblico.
  • Trattamento speciale e differenziato delle economie disuguali, in modo da poter offrire maggiori opportunità ai più deboli.
  • Processo di ampia partecipazione sociale, qualificabile come democratico.
  • I diritti economici, sociali, culturali e civili saranno indipendenti, indivisibili e irrinunciabili.
  • Gli interessi commerciali o quelli degli investitori non potranno godere di una superiorità assoluta, che travalichi i diritti umani e la sovranità degli Stati.
  • Assoggettare l’ALCA (3) agli accordi sulla protezione dei diritti umani, ambiente e generi attualmente esistenti.
  • Creazione di Fondi di Convergenza Strutturale per la correzione delle asimmetrie (4).
  1. II. Principi che regolano l’ALBA

  1. L’integrazione neoliberale predilige il commercio e gli investimenti; invece l’Alternativa Bolivariana per l’America Latina (ALBA) è una proposta che fonda il suo interesse sulla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale.
  2. La proposta dell’ALBA assegna un’importanza fondamentale ai diritti umani, al lavoro e alla donna, alla difesa dell’ambiente e all’integrazione fisica.
  3. Nell’ALBA, la lotta contro le politiche protezioniste e i rovinosi sussidi da parte dei paesi industrializzati non possono negare il diritto dei paesi poveri di proteggere i loro contadini e produttori agricoli.
  4. Per i paesi poveri nei quali l’attività agricola è fondamentale, le condizioni di vita di milioni di contadini e indigeni si vedrebbe irreversibilmente colpita qualora si verificasse un’invasione dei beni agricoli importati, compresi i casi in cui il sussidio non vi fosse.
  5. La produzione agricola è qualcosa di più che la produzione di merci; è la base per preservare scelte culturali, costituisce una forma d’insediamento del territorio, definisce modalità di rapporto con la natura, ha a che fare direttamente con la sicurezza e l’autosufficienza alimentare. In questi paesi l’agricoltura è più che altro un modo di vita e non può essere trattata come qualsiasi altra attività economica.
  6. L’ALBA deve colpire gli ostacoli che si frappongono all’integrazione sin dalle sue fondamenta, vale a dire:
  1. la povertà della maggioranza della popolazione;
  2. le profonde disparità e asimmetrie che esistono tra i paesi;
  3. lo scambio ineguale e le condizioni inique nei rapporti internazionali;
  4. l’onere di un debito impagabile;
  5. le imposizioni delle politiche di aggiustamento strutturale da parte del FMI e della BM e le regole rigide dell’OMC che intaccano le basi dell’appoggio sociale e politico;
  6. gli ostacoli per l’accesso all’informazione, la conoscenza e la tecnologia che derivano dagli attuali accordi sulla proprietà intellettuale;
  7. deve prestare attenzione ai problemi che compromettono il consolidamento di una vera democrazia, come il monopolio dei mezzi di comunicazione sociale
  1. Affrontare la cosiddetta Riforma dello Stato, la quale ha solo prodotto brutali processi di deregolamentazione, privatizzazione e smembramento delle capacità della gestione pubblica.
  2. Come risposta alla selvaggia dissoluzione sofferta dallo Stato per più di un decennio di egemonia neoliberale, fin d’ora s’impone il rafforzamento dello stesso, fondato sulla partecipazione del cittadino agli affari pubblici.
  3. Bisogna mettere in questione l’apologia del libero commercio, concepito sufficiente per garantire l’automatico avanzamento verso superiori livelli di crescita e benessere collettivo.

10.  Senza un chiaro intervento dello Stato, volto a ridurre le disparità tra i paesi, la libera concorrenza tra disuguali non può condurre se non al consolidamento dei più forti a danno dei più deboli.

11.  L’approfondimento dell’integrazione latinoamericana ha bisogno di un’agenda economica definita dagli Stati sovrani, svincolata dall’influenza nefasta degli organismi internazionali.

III.             L’ALBA nei Caraibi

L’ALBA acquista una dimensione speciale nei Caraibi, grazie all’esistenza di condizioni oggettive che consentirebbero di avanzare rapidamente nel processo d’integrazione, mediante lo sviluppo di un programma di cooperazione integrato e consistente, indirizzato a costruire le basi dello sviluppo socioeconomico sostenibile e il consolidamento di una comunità di nazioni.

Evidenziamo, pertanto, che le proposte dell’ALBA circa i Caraibi non hanno la pretesa di entrare in conflitto con gli accordi multilaterali o subregionali esistenti, i quali, invece, devono essere assunti come complementari.

Perciò, le iniziative devono mantenere una visione sistemica e integratrice, prendendo in considerazione la complessità dei processi e l’indivisibilità delle dimensioni politiche, sociali, economiche, culturali, ambientali, di sicurezza e sovranità dei popoli dei Caraibi.

I Caraibi sono una riserva di ricchezze energetiche e idrobiologiche, ricca di giacimenti minerali strategici. È una regione che diverrà una potenza turistica mondiale e di prestazione di servizi marittimi per la sua ubicazione geostrategica. È, ugualmente, una zona di ampio e ricco profilo culturale ed etnico.

D’altra parte, le comunità delle nazioni caraibiche mostrano un peso politico importante negli organismi multilaterali internazionali come l’ONU e l’OSA, nei quali hanno un’importante capacità di negoziazione al momento della presa di decisioni.

Senza dubbio, tutte queste capacità si potenzierebbero nell’ambito di un processo d’integrazione come quello proposta dall’ALBA.

I Caraibi sono un mercato relativamente piccolo, di 36,25 milioni di abitanti. Aggiungendo la CARICOM (5) (15,7 milioni), Cuba (11,3 milioni) e Repubblica Dominicana (9,1 milioni), la regione raggiunge i 62,8 milioni di abitanti, se includiamo anche il Venezuela; il PIL della regione raggiunge gli 80.000 MM USD (6) dei quali il 36,25% (28.000 MM USD) è fornito dai 15 paesi integranti della CARICOM e il rimanente 63,75% (52.000 MM USD) da Cuba e Repubblica Dominicana.

Troviamo degli svantaggi nel fatto che i paesi caraibici hanno sempre esibito bilanci commerciali in disavanzo e anche nel fatto che il commercio interregionale è basso per quanto rappresenta il volume delle esportazioni – l’11,75% del totale esportato e le importazioni – il 5,15%. Difatti, il 71% delle esportazioni della regione ha come destinatari l’America del Nord e l’Europa, mentre solo un 12% finisce in America Centrale e un 4% in Sudamerica.

I settori che riportano maggiori indici d’esportazione sono: prodotti minerali (compresi il petrolio e i suoi derivati), tessili, prodotti chimici, manifatture varie, bibite, alimenti e metalli comuni.

Bisogna far notare che esistono potenzialità di complementarità e sostituzione d’importazioni provenienti da paesi terzi per prodotti elaborati interregionalmente, in quanto esistono settori la cui richiesta di merci possiede una produzione interregionale, ma queste sono commercializzate con paesi terzi.

Per le ragioni summenzionate, si può concludere che esistono una grande sfida e grandi opportunità per lo sviluppo e l’approfondimento del commercio interregionale, che consentirebbe di portare a termine un’efficiente sostituzione d’importazioni provenienti da paesi terzi, in cambio di prodotti di origine interregionale.

Senza dubbio, come abbiamo appena rilevato, i settori corrispondenti a “Prodotti Minerali”, “Metalli Comuni” e “Turismo” presentano una maggiore potenzialità di sviluppo e complementarità tra i paesi dei Caraibi, grazie ai vantaggi comparativi apportati da ciascuna delle parti.

In campo sociale, si può anche affermare che esistono necessità e obiettivi comuni, poiché tutti i paesi della regione chiedono di contribuire allo sviluppo dei livelli dell’educazione primaria e colmare le lacune presenti nell’educazione superiore, la quale è stata storicamente bassa nei Caraibi, così come i livelli di scolarità.

Nel campo sanitario, l’ALBA riconosce sfide comuni: dopo l’Africa subsahariana, i Caraibi sono la zona più colpita dalla SIDA.

  1. IV. Iniziative dell’ALBA per i Caraibi

Le iniziative concrete nell’ambito dell’ALBA per i Caraibi sono le seguenti:

a.    Lotta contro la povertà e l’esclusione sociale

Organizzare programmi abitativi, servizi fondamentali (acqua, elettricità e viabilità), alfabetizzazione, salute. Progettare un piano d’appoggio tecnico e finanziario per lo sviluppo del programma d’alloggi decorosi, tenendo conto delle caratteristiche etnoculturali della regione, nonché l’istituzione di basi d’appoggio tecnico e finanziario per l’erogazione dei servizi fondamentali (essenzialmente acqua ed elettricità), per l’infrastruttura viaria e quella medica di base nel campo della sanità.

  1. b. Piano d’insieme in materia di sicurezza alimentare

Introdurre un piano d’insieme sulla sicurezza alimentare mediante l’elaborazione di un quadro normativo che garantisca le condizioni per lo sviluppo della produzione e l’elaborazione degli alimenti, conforme a norme di corretta fabbricazione, analisi dei rischi e punti di controllo critico, così come il marketing e la commercializzazione dei prodotti alimentari a basso prezzo per le popolazioni di minori risorse presenti nella regione.

  1. c. Sviluppo energetico e minerario

Intraprendere iniziative d’insieme per lo sviluppo energetico e minerario mediante l’articolazione di catene di aggregazione di valore integrate, capaci di aggiungere valore alle materie prime e capaci di stimolare lo sviluppo endogeno nella regione sulla base dell’innovazione tecnologica, al fine di conseguire la sovranità produttiva. Elaborare una cartina minerario-metallurgica dei Caraibi e lo studio delle sue potenzialità industriali, come fondamento di un piano strategico minerario della regione. Applicare strategie d’insieme di marketing e d’ingegneria dei mezzi logistici per il trasporto, lo stoccaggio e la distribuzione degli alimenti non lavorati e di altri prodotti presenti nella regione caraibica. Ampliare le opzioni d’energia primaria nei Caraibi, con particolare riguardo al gas naturale. Stabilire le basi per la creazione di un Fondo di Sviluppo Minerario finalizzato all’assistenza tecnica, finanziaria e d’investigazione e allo sviluppo scientifico e tecnologico del settore.

  1. a. Portafoglio d’investimenti integrato

Progettare e promuovere un portafoglio d’investimenti volto a costruire le catene industriali integrate di aggregazione di valore delle materie prime.

  1. b. Scambio accademico e culturale

Accomunare gli sforzi per ampliare il raggio d’azione dell’Università dei Caraibi, attraverso l’apertura di sedi in altri paesi della regione. Incentivare gli sforzi di scambio culturale tra i nostri Paesi allo scopo di rafforzare i vincoli storici e culturali. Stabilire alleanze strategiche rivolte alla formazione di risorse umane in diversi settori, condividendo le capacità e le potenzialità comuni nel settore.

  1. c. Turismo

Condividere le esperienze e gli sviluppi raggiunti dall’industria turistica nella regione, per gettare le basi di una gestione integrata, approfittando dei vantaggi e delle capacità proprie di ciascun paese. Stabilire alleanze strategiche orientate alla formazione delle risorse umane nel settore turistico, allo sviluppo dell’infrastruttura dei trasporti, alla logistica in generale e alla costituzione di una linea aerea caraibica regionale, in previsione della realizzazione di una struttura turistica nella regione. Esplorare la formazione di una nuova iniziativa d’integrazione, attraverso il servizio della gestione, promozione, certificazione, logistica e commercializzazione dei servizi turistici nei Caraibi.

  1. d. Conservazione ambientale

Elaborare programmi d’insieme di conservazione, sorveglianza e monitoraggio degli ecosistemi; promuovere il consolidamento di sistemi d’appoggio alla gestione ambientale comunitaria e la formazione di risorse umane in questa materia.

  1. e. Mercato regionale caraibico

Sviluppare programmi di sostegno al produttore e al consumatore, programmi tributari, di finanziamento e accesso al credito, garanzie, promozione e indagine di mercato, agevolazione del commercio, infrastruttura d’appoggio alla produzione, istituzione di circuiti produttivi basati sullo sviluppo endogeno. Nuovo programma d’incentivi.

  1. f. Prevenzione e gestione delle calamità

Costruzione di un sistema di prevenzione e gestione delle calamità nella regione, mediante l’istituzione di un sistema di monitoraggio di azione congiunta.

VI.    Conclusione

È possibile concludere affermando che la proposta del presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Hugo Rafael Chávez Frías, costituisce un fatto storico ed epocale; essenzialmente presente nei sogni d’integrazione dei nostri padri della patria, essa offre una vera possibilità di sviluppo e indica una strada luminosa per il futuro dell’America Latina e dei Caraibi.

(Traduzione dallo spagnolo di Vincenzo Paglione)

*  Insediamento della V Assemblea Generale della Confederazione Parlamentare delle Americhe, 25 novembre 2003.

1. Fonte: Relazione di Fernando Ramón Bossi, Segretario dell’Organizzazione del Congresso Bolivariano dei Popoli, presentata nel Foro del III Vertice dei Popoli, Mar del Plata, 3 novembre 2005,  Documento del Ministerio de Integración y Comercio Exterior (Ministero dell’Integrazione e Commercio Estero). in http://www.alternativabolivariana.org/pdf/alba_mice_es.pdf

2. ALADI (Asociación Latinoamericana de Integración, Associazione Latinoamericana per l’Integrazione) (N.d.T.).

3. FTAA-ALCA (Free Trade Area of the Americas, Area di Libero Commercio delle Americhe) (N.d.T.).

4. Fonte: Bancoex. Proposta di Programma Culturale Educativo dell’ALBA.

5. CARICOM (Caribean Community. Comunità Caraibica) (N.d.T.).

6. MM USD (Milliards United States Dollar, Miliardi di dollari americani) (N.d.T.).

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Le dinamiche latitudinali e longitudinali

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Quando i grandi spazi dell’Antichità si formano, seguono un’evoluzione di tipo latitudinale, favoriti dalla posizione del Mediterraneo romanizzato, dalla cintura desertica, dal tracciato dei massicci montuosi. Da allora, il posizionamento dei grandi spazi dell’Antichità segue un asse Est-Ovest, corrispondente al parallelismo della zona temperata settentrionale, della zona sub-tropicale e della zona tropicale. Solo i più antichi imperi fluviali, come l’Impero egizio lungo il Nilo, la Mesopotamia, la cultura pre-ariana dell’Indo costituiscono delle eccezioni. L’orientamento di questi imperi, contrario a quello dell’Impero romano, è loro imposto  dal corso della loro arteria vitale (il fiume). Tale orientamento influenza tutto il corso della loro storia, fino al momento in cui essi vengono assorbiti dal primo grande spazio latitudinale del Medio Oriente, l’Impero achemenide degli Iraniani.

A partire da questo momento, si dispiega la dinamica latitudinale, con i Fenici, gli Elleni, i Romani, gli Arabi, i popoli della steppa, i Franchi, gli Iberi. In effetti, i popoli iberici traspongono dapprima la loro potenza da un mediterraneo ad un altro, dal Mediterraneo romano a quello dei Carabi, in America. Essi proseguono così la logica latitudinale. Quando raggiungono le rive del Pacifico, questa espansione latitudinale prende la forma di un ventaglio. Tra il 1511 e il 1520, i Portoghesi da Ovest e gli Spagnoli da Est raggiungono il primo grande spazio che tenta di svilupparsi longitudinalmente verso Sud, contando sulle proprie forze; all’epoca, questo grande spazio è il portabandiera dell’Asia orientale, vale a dire la Cina, potenza che spesso ha cambiato forma esterna pur mantenendo la sua cultura e il suo patrimonio razziale. Prima dell’arrivo degli Iberici e prima dell’adozione di questa logica di espansione longitudinale, anche la Cina si era estesa latitudinalmente.

Il flusso migratorio asiatico-orientale, cinese e giapponese, avviene su un asse Nord-Sud, nel momento in cui l’espansione coloniale spagnola lo attraversa costituendo nello stesso tempo il primo impero latitudinale “sul quale il Sole non tramonta mai”. La Spagna non conserva il suo monopolio che per 70 anni. Poi, sulle sue tracce, arrivano quelli che vogliono confiscarle la sua potenza e diseredarla. Il più potente di questi nuovi avversari è l’Inghilterra, che si mette rapidamente a costruire il suo primo e il suo secondo impero, la cui configurazione presenta numerose torsioni, ma rimane comunque il risultato di un’espansione latitudinale, determinata dalla posizione del Mediterraneo, il cui controllo garantisce il possesso dell’India. Quanto all’impero degli zar bianchi e poi rossi, esso segue in direzione Est l’estensione latitudinale della zona dei campi di grano. Tra i due imperi si situa una zona-tampone. Negli anni 40 del XX secolo, emergono quasi simultaneamente due costruzioni geopolitiche longitudinali, la costruzione panamericana e la costruzione grande asiatico-orientale, che sfuggono entrambe a questo campo di forze latitudinale, danno impulso ad espansioni lungo assi Nord-Sud e inquadrano le espansioni imperiali britanniche e russe.

Se si paragona questo nuovo stato di cose  alla concezione dinamica di avanguardia di Sir Halford Mackinder, da lui chiamata “the geographical pivot of history” ed enunciata nel 1904,  — essa corrisponde perfettamente alla situazione di quell’epoca —  il nuovo orientamento delle espansioni panamericana ed asiatico-orientale costituisce una formidabile modificazione del campo di forze sulla superficie della Terra; in questo nuovo contesto, il tentativo di realizzare l’idea di Eurafrica o gli sforzi dell’Unione Sovietica di abbandonare la sua dinamica latitudinale per orientare la sua espansione  verso il Sud e i mari caldi e per costituirsi uno spalto indiano, non dispiegano un’energia cinetica altrettanto potente.

Questa constatazione è tanto più preoccupante in quanto, nella vasta area asiatico-orientale, si può constatare una impulso interno che conduce ad una sorta di auto-limitazione centripeta, che intende concentrare tutti gli sforzi sul grande spazio in cui vivono dei popoli affini. Questa volontà centripeta è già operante e visibile. Ora, la potenza imperialista degli Stati Uniti non è centripeta ma, dopo la concretizzazione della dominazione nord-americana sullo spazio panamericano, essa estende i suoi tentacoli in direzione dell’Africa tropicale, dell’Iran, dell’India nonché dell’Australia. L’imperialismo americano parte dalla sua base, cioè da un territorio formato a partire da un’espansione longitudinale, per assicurarsi la dominazione del mondo, avviando a sua volta e a suo vantaggio una dinamica  latitudinale. Questo imperialismo già si prepara a contrastare l’espansionismo dei suoi futuri nemici preparando una terza guerra mondiale.

Dunque, a partire dall’espansione longitudinale panamericana, l’imperialismo di Washington mira senza pudori a diventare l’unica potenza imperialista del globo, se si eccettua tuttavia il pericolo rappresentato dalla rivoluzione mondiale sovietica. A fronte di questa rivoluzione sovietica, la grande area asiatico-orientale ha reso dinamico il proprio spazio culturale e innescato il dispiegamento della propria potenza. Essa pensa così di garantire il proprio futuro costituendo una zona-tampone.  Da una generazione, gli osservatori ritengono che pure l’Europa debba darsi una tale zona-tampone, come del resto già suggerito da uomini come Ito, Goto, etc., per fare opposizione alle mire espansionistiche dello zarismo.

La collisione frontale tra dinamica longitudinale e dinamica latitudinale è molto visibile in Africa, nello spazio islamico e nella zona in cui l’impero britannico sembra sfasciarsi. Constatiamo dunque l’esistenza di due esigue linee di traffico aereo e marittimo, che si lanciano molto lontano verso Sud e al termine delle quali sembra essere agganciata l’Australia, continente vuoto, situato tra i territori compatti dove vivono le popolazioni anglofone e sulla principale via di espansione verso Sud della grande area asiatico-orientale. Mackinder aveva parlato di un “esterno in crescita” che correva il pericolo di essere abbandonato al mare: in questa parte della Terra, tale previsione è quasi divenuta realtà. È anche la ragione per cui in questo momento l’Europa non sembra più solidamente collegata all’Africa. La spinta laterale contro i dominatori delle latitudini è slittata verso Sud-Est.

Oggi ai Sovietici, padroni di quello che Mackinder un tempo chiamava il “pivot of history”, e all’Asse, cioè alle potenze dell’ “interno in crescita”, non resta che registrare il fatto. Certo, i sanguinosi combattimenti che oggi si svolgono sul teatro pontico [del Mar Nero] e caspico sono importanti per il destino della cultura europea, come tutti i combattimenti avvenuti in questa zona nel corso della storia, tuttavia, per la nuova suddivisione della Terra in raggruppamenti di grandi spazi, suddivisione che s’impone, questo teatro di guerra è divenuto secondario.

L’evoluzione geopolitica decisiva futura è la seguente: l’espansione latitudinale anglo-americana diretta contro l’espansione longitudinale asiatica si manterrà o sarà bloccata? Sia che questa lotta abbia una fine positiva che negativa, gli Stati Uniti credono di essersi assicurati nell’ex impero britannico garanzie territoriali sufficienti  per far tornare i propri conti. Nella pratica, questo significa che essi vogliono conservare l’America tropicale e, in più, l’Africa tropicale. Se essi ritengono che l’Insulindia, terza grande regione tropicale fornitrice di materie prime, che l’Iran già fortemente intaccato, che l’India, valgano enormi  sanguinosi sacrifici e colossali investimenti in denaro, essi se ne impadroniranno concentrando altrettante forze di quelle che concentrano per cacciare le potenze della grande area asiatico-orientale dai loro possessi ben fortificati. Per coloro che danno il loro sangue o il loro denaro alla causa degli Alleati, al fine che questi siano beneficiari della grande eredità, questa è la domanda più evidente da porre in questa lotta planetaria.

E’ per essere gli eredi di questo grande patrimonio, e non per dei principi, che gli Stati Uniti mostrano all’Europa i loro denti da gangster; nella grande area asiatico-orientale, essi non fanno sentire che quel rullo di tamburi che sono le declamazioni di McArthur, sospinto a fallire nel Pacifico la sua chance di diventare, un giorno, Presidente, come a suo tempo Cripps in India. Tra la Cina di Nanchino e la Cina di Chungking sono possibili, come in precedenza, i compromessi più pazzeschi, più sorprendenti. Il vasto ambiente chiamato in causa dall’espansione longitudinale della grande area asiatico-orientale è ancora pieno di energie latenti. Sul piano cinetico, queste energie si sono viste all’opera solo a sinistra del Giappone, soprattutto in Cina, ma non abbiamo ancora visto niente a destra. Lì, ci si aspetta una guerra che durerà dai dieci ai quindici anni. La Cina ha tenuto duro per 32 anni di guerre civili, il Giappone ha alle sue spalle dodici anni di guerra sul continente. E ha dimostrato di essere veramente in grado di colpire duro in direzione del Pacifico. Bisognerà avere ampio respiro, essere capaci di affrontare i tempi lunghi, di cogliere le dinamiche di vasti spazi, per comprendere la lotta che oppone la dinamica latitudinale alla dinamica longitudinale, le quali si dispiegano entrambe da una parte e dall’altra del Pacifico.

(Zeitschrift für Geopolitik, Nr. 8, 1943)

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Intervista a Juan Domingo Peron

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Prima di tutto, potrebbe parlarci del libro che ha appena pubblicato, La hora de los pueblos?

In questo libro ho voluto dare una visione d’insieme dell’influenza e del dominio imperialisti in America Latina. Penso che i paesi latinoamericani si stiano avviando verso la loro liberazione. Beninteso, questa liberazione sarà lunga e difficile, perché interessa la totalità dei paesi sudamericani. Infatti non è pensabile che vi sia un uomo libero in un paese schiavo, né un paese libero in un continente schiavo. In Argentina, in dieci anni di governo giustizialista, siamo vissuti liberi in una nazione sovrana. Nessuno poteva intromettersi nelle nostre faccende interne senza fare i conti non noi. Ma in dieci anni la sinarchia internazionale, ossia l’insieme delle forze imperialiste che dominano attualmente il mondo, ha avuto ragione di noi. Una quinta colonna, i cipayes, come noi li chiamavamo riferendoci all’India, aveva eseguito scientificamente un efficace lavoro di scavo, e l’ordinamento politico da me presieduto venne rovesciato. Ciò dimostra che, se i popoli possono arrivare a liberarsi dal giogo imperialista, in seguito per loro è molto più difficile conservare l’indipendenza, perché le forze internazionali che ho denunciate riprendono il controllo della situazione… In questo senso, la sconfitta subìta dal giustizialismo deve essere una lezione e un’esperienza, ahimé assieme a molte altre, per tutti i paesi che vogliono liberarsi e rimanere liberi.

Bisogna considerare la lotta di liberazione dei paesi del Sudamerica come una lotta globale, a livello continentale. In questa lotta, ogni paese è solidale coi suoi vicini, presso i quali deve trovare appoggio. La prima necessità per questi paesi è unirsi, integrarsi. Il secondo punto consiste nel realizzare l’alleanza effettiva col Terzo Mondo, così come noi, i miei collaboratori ed io, la preconizziamo da vent’anni! È questa la via che bisogna indicare al popolo sudamericano; non solo ai dirigenti, ma anche alla massa popolare, che deve rendersi consapevole della necessità di questa lotta contro l’imperialismo. Unificare il continente e liberarlo dalle influenze straniere, allearsi al Terzo Mondo per partecipare alla lotta antimperialista su scala mondiale: sono questi, dunque, i primi obiettivi. In seguito, potrà svilupparsi il processo di liberazione interna: il popolo otterrà il governo che quotidianamente reclama e che gli viene continuamente rifiutato; di qui la successione di dittature effimere e di governi fantoccio instaurati in seguito a macchinazioni, mai in seguito ad elezioni, per cui il popolo viene tenuto prima sotto un dominio e poi sotto un altro. È questo il processo che il mio libro vuol far capire alle masse popolari.

Esiste nell’America del Sud una classe sociale, una borghesia, che collabora sistematicamente con gli Stati Uniti?

Disgraziatamente sì! Nel nostro paese è assai netta sia la divisione tra il popolo e un’oligarchia fondata sulla ricchezza e sulla nascita, sia quella che separa il popolo e la nuova borghesia “d’affari” che si sviluppa rapidamente. In ogni industriale che si arricchisce, sonnecchia un oligarca potenziale. Questa oligarchia domina il paese, ma non bisogna sottovalutare l’ampiezza della lotta di un’immensa massa popolare che esige la propria libertà. È questo il movimento che noi abbiamo avviato, in una certa misura, nei dieci anni di governo giustizialista. Il giustizialismo è una forma di socialismo, un socialismo nazionale, che corrisponde alle necessità e alle condizioni di vita dell’Argentina. È naturale che questo socialismo abbia trascinato la massa e che in nome di esso siano esplose le rivendicazioni sociali. Esso ha creato un sistema sociale del tutto nuovo, del tutto diverso dal vecchio liberalismo democratico che dominava il paese e si era messo senza vergogna al servizio dell’imperialismo yankee.

In Europa, gli Americani hanno corrotto tutte le tendenze politiche: dall’estrema destra all’estrema sinistra. Vi sono collaborazionisti, venduti agli Stati Uniti, sia tra i socialisti sia tra i cattolici sia tra i liberali. Gli Americani riescono a comprare tutti i partiti. Si verifica il medesimo fenomeno anche in America Latina?

Esattamente. Gli Americani usano la stessa tecnica in ogni parte del mondo. Prima di tutto, cominciano con la penetrazione economica, per il tramite dell’oligarchia di cui parlavo poc’anzi, la quale vi trova un interesse sostanziale… Poi è la volta delle pressioni politiche, più o meno dirette, in tutti i settori politici. Così, se non possono comprare e controllare le forze politiche nazionali, gli Americani tentano di farle esplodere e di dividerle. La CIA è maestra nell’organizzare le provocazioni. Raggiunti questi obiettivi, si rivolgono verso gli ambienti militari, nei quali penetrano in diversi modi, il più efficace dei quali è l’uso generoso della mazzetta. È così che hanno agito in Viet Nam; alcuni loro “consiglieri militari” si occupavano principalmente di assoldare dei generali la cui integrità morale non era certamente a tutta prova e che non hanno rifiutato l’offerta di considerevoli vantaggi economici (assegnazioni massicce di azioni di società straniere, per esempio, oppure nomine alla direzione generale di società). Guadagnati questi uomini alla causa dell’imperialismo americano, resta solo da organizzare il colpo di Stato militare che instaurerà una dittatura: è il caso dell’Argentina, ma è stato così anche in Brasile e in Ecuador e da qualche tempo è così in Perù e a Panama. Il metodo è sempre il medesimo. In una prima fase, una volta che la situazione è nelle loro mani, gli Americani cominciano ad accaparrarsi tutte le ricchezze economiche del paese, imbavagliando sistematicamente tutte le forze politiche e sociali dell’opposizione. Questo è il meccanismo in Sudamerica, in Asia, in Europa e altrove.

C’è di più. In Europa, gli Americani sono riusciti a controllare dei movimenti il cui scopo ufficiale è l’unificazione europea! A Bruxelles, i movimenti europeisti paralleli al Mercato Comune sono stati oggetto di un’infiltrazione tale, che adesso proclamano che “bisogna fare l’Europa con gli Americani”. Questa è evidentemente un’idiozia, perché l’unificazione europea, come abbiamo più volte spiegato su “La Nation Européenne”, comporta la partenza degli Americani. Ma questi ultimi sono talmente abili, che sono riusciti addirittura a prendere in mano la tendenza europeista per meglio soffocarla, per farla fallire meglio! Ma torniamo all’America Latina. Alcuni governi non cercano di resistere alla penetrazione americana?

Praticamente no, perché ci troviamo in una fase di dominio quasi totale. Certo, ci sono alcuni governi che non sono contaminati dalla cancrena americana. Ma nel generale contesto di sottomissione, dato il carattere derisorio ed aleatorio, in quanto isolato, delle misure da loro adottate per fronteggiare questo imperialismo, essi non riescono a mettere insieme una vera opposizione. D’altra parte, tutti i movimenti rivoluzionari antimperialisti sono perseguitati in Sudamerica e in particolare in Argentina. E ciò vale per tutto il mondo, perché in genere tutti paesi sono più o meno dominati, direttamente o indirettamente, dall’influenza imperialista, si tratti dell’imperialismo americano o di quello sovietico. Entrambi, in fin dei conti, sono d’accordo per una spartizione del mondo “in via amichevole”.

Secondo Lei, perché i Russi hanno (apparentemente) abbandonato ogni attività rivoluzionaria in America Latina? Non è che i Russi abbiano stipulato un accordo tacito con gli Americani, promettendo loro di non fare niente in America Latina in cambio dell’impegno americano a non intervenire in un’altra parte del mondo?

Certamente! È lo stesso fenomeno al quale si assiste in Europa. A Jalta i due “supergrandi” hanno diviso il mondo in due zone d’influenza: una ad est della Cortina di Ferro, l’altra ad ovest. È così che l’occupazione della Cecoslovacchia, come quella dell’Ungheria nel 1956, è avvenuta con l’assenso degli Americani. Reciprocamente, lo sfruttamento economico e il controllo politico dell’Europa occidentale da parte degli Americani sono possibili solo con il consenso dei Russi. Jalta ha diviso il mondo in due riserve di caccia ad uso delle due potenze imperialiste; Russi e Americani sono legati dai trattati firmati a Potsdam. Questa divisione venne stabilita per evitare ulteriori motivi di conflitto tra i due imperialismi. A Jalta e a Potsdam, Stalin impose la sua volontà a due uomini di Stato quasi moribondi, Roosevelt e Churchill. Da allora, la conferenza di Jalta e i trattati di Potsdam hanno forza di legge permanente e sono entrati a far parte del diritto pubblico internazionale. L’occupazione della Cecoslovacchia è la conseguenza diretta di Jalt e di Potsdam. Nessuno che sia in buona fede lo può negare.

Chi può opporsi a questo stato di cose? Il Terzo Mondo. Ma il Terzo Mondo è diviso, è ancora soltanto un concetto astratto e una speranza per tutti coloro che aspirano alla libertà. La questione della liberazione dei nostri paesi si risolverà solo a lungo termine. È questione non di una, ma di più generazioni. Il nostro compito consiste nel preparare queste nuove generazioni, che dovranno lottare per la liberazione con tutte le loro forze. In Argentina, il movimento giustizialista, il movimento peronista, comprende il 90% della gioventù. Ciò è fondamentale, perché la gioventù rappresenta l’avvenire e la nostra azione è orientata verso il futuro. Noi vecchi abbiamo fatto il nostro dovere.

Adesso passiamo la bandiera ai giovani.

Lei ritiene che la liberazione della sola Argentina o del solo Cile siano destinate all’insuccesso. Secondo Lei, i diversi movimenti di liberazione devono agire simultaneamente, e su scala continentale. Lei è dunque un fautore risoluto dell’integrazione?

Sì, perché credo a un certo determinismo storico. Il mondo è sempre stato sotto la sferza di un imperialismo. Oggi abbiamo la disgrazia di dover lottare contro due imperialismi complici. Ma la potenza degli imperialismi segue una curva parabolica: una volta raggiunto il punto più alto dell’asse delle ordinate, il culmine della curva, la decadenza comincia. Secondo me gl’imperialismi sono già entrati nella fase della decadenza. Abbiamo visto che non possono essere rovesciati o distrutti dall’esterno, a meno che non avvenga l’integrazione di tutti i mezzi di lotta e di tutte le forze coinvolte. Ma questa union sacrée è lunga e difficile da realizzare e ciò consente agl’imperialismi di vivere giorni felici. Tuttavia c’è un pericolo che li minaccia: essi marciscono dall’interno e questa corruzione è già alquanto avanzata, nel Nordamerica così come in Russia. Bisogna servirsi di ciò per far precipitare il processo di degrado. Per giungere allo scopo, una lotta isolata sarebbe vana, per quanto eroica possa essere.

Io penso che noi stiamo arrivando a una fase della storia dell’umanità che sarà contrassegnata dal declino delle grandi potenze dominatrici. Siamo giunti al termine di un’evoluzione umana che, dall’uomo delle caverne fino ai giorni nostri, è avvenuta mediante l’integrazione. Dall’individuo alla famiglia, alla tribù, alla città, allo Stato feudale, alle nazioni attuali, si arriva all’integrazione continentale. Attualmente, al di fuori di alcuni colossi (USA, Russia, Cina), un paese da solo non rappresenta una grande forza; nel mondo di domani, in cui l’Europa si integrerà, così come si integreranno l’America e l’Asia, le nazioni isolate di piccole dimensioni non saranno più in grado di sopravvivere. Oggi, per vivere coi mezzi della potenza, bisogna aggregarsi ad un blocco già esistente, oppure bisogna crearlo. L’Europa si unirà o soccomberà. L’anno 2000 vedrà un’Europa unita o dominata. Ciò vale anche per l’America Latina.

Un’Europa unita avrebbe una popolazione di 500 milioni di abitanti. Il continente sudamericano ne conta già più di 250. Blocchi come questi sarebbero rispettati e contrasterebbero efficacemente l’asservimento agli imperialismi, che è la sorte dei paesi deboli e divisi.

Lei pensa che l’opera di agitazione intrapresa da Fidel Castro sia utile alla causa latinoamericana?

Assolutamente sì. Castro è un promotore della liberazione, Egli si è dovuto appoggiare a un imperialismo perché la vicinanza dell’altro minacciava di schiacciarlo. Ma l’obiettivo dei Cubani è la liberazione dei popoli dell’America Latina. Essi non hanno altra intenzione se non di costituire una testa di ponte per la liberazione dei paesi continentali. Che Guevara è un simbolo di questa liberazione. Egli è stato grande perché ha servito una grande causa, fino ad incarnarla. È l’uomo di un ideale. Molti grandi uomini sono passati inosservati perché non avevano una causa nobile da servire. In compenso uomini semplici e normali, che non erano predestinati a un tale ruolo e non erano dei superuomini ma semplicemente degli uomini, sono diventati dei grandi eroi perché hanno potuto servire una causa nobile.

Ha l’impressione che i Sovietici impediscano a Castro di svolgere una funzione importante in America Latina? E che trattengano Castro per impedirgli di oltrepassare un certo livello di agitazione?

Perfetto. Questo ruolo, d’altronde, i Russi non lo svolgono solo a Cuba, ma anche in altri paesi. Guevara, dopo aver compiuto la sua missione a Cuba, era andato in Africa per entrare in contatto col movimento comunista africano. Ma i responsabili di questo movimento avevano ricevuto l’ordine di respingere Guevara. Guevara dovette abbandonare l’Africa, perché lì erano all’opera i Russi: in Congo, un conflitto contrapponeva i due imperialismi concorrenti. Le due opposte tendenze da loro rappresentate possono, in certi momenti, unire le loro forze per difendere la stessa causa: quella dell’ordine vigente. È logico, perché difendono l’imperialismo, non la libertà dei popoli!

Che cosa ne penserebbe di instaurare una rete mondiale di informazioni e di relazioni tra tutte le tendenze che lottano contro gl’imperialismi russo e americano e di mettere in comune un certo numero di sforzi politici?

Bisogna considerare che l’unificazione deve essere l’obiettivo principale di tutti coloro che combattono per una stessa causa. Dico unificazione, e non unione o associazione. La cosa necessaria è integrarsi. Noi avremo presto l’occasione di agire, e per un’azione efficace bisogna essere integrati e non semplicemente associati.

Lei dunque ritiene che si debba andare molto lontano, molto più lontano della semplice connessione, nell’alleanza tattica coi nemici dell’imperialismo americano. Con Castro, con gli Arabi, con Mao Tsetung se è necessario? Lei pensa che il nemico sia tanto potente, tanto invadente, che bisognerà mettersi tutti insieme per venirne a capo, avendo la cura di lasciare in ombra le differenze ideologiche?

Io non sono comunista. Sono giustizialista. Ma non ho il diritto di volere che anche la Cina sia giustizialista. Se i Cinesi vogliono essere comunisti, perché dovremmo volere “renderli felici” ad ogni costo, contro la loro volontà? Essi sono liberi di scegliere il regime che preferiscono, anche se diverso dal nostro. Ciascuno è sovrano per quanto concerne le sue faccende interne. Ma se i Cinesi lottano contro il medesimo dominio imperialista contro il quale lottiamo noi, allora sono nostri compagni di lotta. Mao stesso ha detto: “La prima cosa da distinguere è la vera identità degli amici e dei nemici. Dopo, si può agire”. Io sono un fautore delle alleanze tattiche, secondo la formula “i nemici dei nostri nemici sono nostri amici”.

Secondo Lei, il Mediterraneo orientale potrebbe diventare, nei mesi a venire, teatro di un importante conflitto?

Ritengo che la situazione dell’Europa non sia mai stata così pericolosa come adesso. Tutto quello che l’Europa ha fatto per evitare di essere nuovamente un campo di battaglia in un prossimo conflitto rischia di essere vano. Con le basi sovietiche in Africa, la flotta russa nel Mediterraneo, le 125 divisioni del Patto di Varsavia di fronte a una NATO indebolita che non sarebbe in grado di sostituire un moderno esercito europeo, l’Europa potrebbe essere invasa in poche settimane, se i Russi lo decidessero. È certo che la polveriera del Vicino Oriente potrebbe originare un conflitto che sarebbe quasi impossibile limitare, un conflitto di cui l’Europa potrebbe essere una delle prime vittime, nel suo attuale stato di divisione.

In questa ottica, Le sembra che la Palestina possa diventare un secondo Viet Nam, con una guerra inizialmente localizzata?

Sì, perché il Vicino Oriente ha un’importanza strategica grandissima. È il ponte fra due continenti che si risvegliano: l’Asia e l’Africa. È per questo che, dietro la lotta fra Israele e i paesi arabi, gli Americani e i Russi combattono una lotta accanita che ha come scopo il possesso di questo punto strategico.

La ringrazio. Ho terminato con le mie domande. Desidera fare una dichiarazone su qualche argomento particolare?

Leggo regolarmente “La Nation Européenne” e ne condivido interamente le idee. Non solo per quanto concerne l’Europa, ma il mondo. Un solo rimprovero: al titolo “La Nation Européenne” avrei preferito quello di “Monde Nouveau”. L’Europa da sola, in futuro, non avrà tutte le risorse sufficienti per soddisfare le proprie esigenze. Oggi, interessi particolari si difendono spesso in luoghi molto lontani. L’Europa deve pensare a ciò. Essa deve integrarsi, certo, ma integrandosi deve mantenere degli stretti contatti con gli altri paesi in via d’integrazione. L’America Latina in particolare, che è un elemento essenziale che si deve alleare all’Europa. Noi Latinoamericani siamo Europei, e non di tendenza americana. Personalmente, io mi sento più francese, più spagnolo o più tedesco che americano. Il vecchio ebreo Disraeli aveva ragione quando diceva: “I popoli non hanno né amici né nemici permanenti; hanno interessi permanenti”. Bisogna associare questi interessi, anche se sono geograficamente lontani, affinché l’Europa continui ad essere la prima potenza civilizzatrice del mondo.

* La presente intervista, che il Generale Peròn rilasciò a Jean Thiriart il 7 novembre 1968 a Madrid, apparve originariamente su “La Nation Européenne” (Paris-Bruxelles), n. 30, febbraio 1969, pp. 20-22, accompagnata da un servizio fotografico e da un profilo biografico di Peròn. Una traduzione italiana, non integrale, fu pubblicata su “La nazione europea” (Milano-Parma), luglio 1969, pp. 1-4. I concetti che emergono nelle domande e nelle risposte di questa intervista si trovavano già anticipati sul  n. 22 de “La Nation Européenne” (novembre 1967), dedicato in gran parte alla rivoluzione cubana e all’America Latina. “Da quando Fidel Castro prese il potere, il 1 febbraio 1959, – si legge in una nota redazionale – Cuba è la punta di lancia della lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo americano in America Latina e costituisce perciò una minaccia permanente per gli USA, una minaccia tanto più fastidiosa in quanto sono falliti nel modo più ridicolo i tentativi della CIA di rovesciare il castrismo”. Sullo stesso numero, in un articolo che riproponeva fin dal titolo (Plusieurs Viet-Nams) una nota parola d’ordine guevariana, Jean Thiriart aveva scritto: “Se Cuba e l’Algeria rappresentano dei polmoni rivoluzionari per noi nazionalisti europei, è altrettanto evidente che L’Avana ed Algeri un polmone economico possono sperare di trovarlo soltanto in Europa. Non solo l’Unione Sovietica non ha la potenza economica e manca di respiro sufficiente in questo settore, ma essa non si sogna nemmeno di compromettere, in nome dei “princìpi” della rivoluzione, i profitti realizzati a Jalta. A Cuba cominciano ad accorgersene, finalmente! (…) Bisogna che ad Algeri e a Cuba si rendano conto che anche un paese ricco come è l’Europa può essere sfruttato dagli Americani. Algeri e Cuba devono cogliere le contraddizioni interne tra il capitalismo americano e il capitalismo europeo (o una parte consapevole di quest’ultimo) e trarne le conclusioni politiche”. Mentre Thiriart poneva così in risalto l’importanza fondamentale dell’apertura di un fronte europeo che andasse ad aggiungersi alle lotte di liberazione del Terzo Mondo, l’ultima risposta dell’intervista di Peròn prospettava la futura inevitabilità di un’integrazione dell’Europa stessa in una dimensione territoriale più ampia. Qualche anno più tardi, Thiriart svilupperà e definirà questa intuizione disegnando lo scenario geopolitico di un Empire euro-soviétique de Vladivostok à Dublin.

C.M.

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Terrorismo Ambientalista e Governo Mondiale

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Ci sono temi che non passano attraverso il filtro delle idee politiche o della diversità culturale dei vari popoli, ma che vengono diffusi e presi per buoni dalle istituzioni che operano a livello mondiale. Tali questioni sono il pane quotidiano delle organizzazioni transnazionali e dei vari gruppi che si muovono a quel livello.

La prima in assoluto è la “questione ambientale”. Le grandi organizzazioni “globali” ne hanno fatto il proprio cavallo di battaglia, il Presidente degli Stati Uniti ha utilizzato l’attenzione all’ambiente come tema privilegiato nella campagna elettorale nella quale ha stravinto, e ora tutto il mondo si aspetta grandi “cambiamenti”. Ma la realtà dei fatti è più spinosa di quella che sembra. Per cominciare bisognerebbe chiedersi se l’interesse per l’ambiente di questi grandi poteri sia una garanzia di cambiamenti in senso positivo: ci aspettiamo davvero che il governo statunitense, o l’Onu, agiscano per il nostro bene? Da decenni parlano e compiono riforme economiche che non hanno portato a nulla se non al capitalismo sfrenato e alla crisi economica; da decenni parlano di “sviluppo” dei paesi poveri (“in via di sviluppo”, appunto), ma la situazione è costantemente peggiorata; da secoli parlano di “pace”, ma continuamente scoppiano, per interessi inconfessabili, nuove guerre (che un certo “pacifismo” ritualizzato non ha gli strumenti per esorcizzare). Questo non per fare del pessimismo cosmico, ma per sottolineare come sono proprio i poteri che sono dietro la globalizzazione economica (liberismo, capitalismo) e la mondializzazione culturale che si trovano in prima fila per denunciare i pericoli ambientali. Non è sospetto tutto ciò?

Ma ovviamente gli interessi di chi denuncia il degrado ambientale e chiede immediati provvedimenti non è quello di preservare l’ecosistema (distrutto a causa dell’attuale modello economico, mai messo in discussione), bensì quello di creare un allarme globale al quale far seguire un Governo Mondiale. Dopo aver terrorizzato l’intero globo attraverso film hollywoodiani, diffusi da MTV e da ogni canale occidentale, dopo aver inculcato all’intera popolazione mondiale l’incubo della fine del mondo, avranno gioco facile a far accettare a tutti provvedimenti globali, e quindi un Governo Globale. È chiaro come un Governo Mondiale abbia un centro decisionale ben preciso ed è proprio questo che ci aiuta a capire la questione: infatti chi oggi ritiene necessario questo Governo Mondiale non sono altro che gli appartenenti alla coalizione “occidentale” guidata dagli Stati Uniti d’America, vale a dire l’unica superpotenza che oggi si trova in declino e che, per preservare il proprio dominio, tenta questa strada globalizzatrice. In questo modo riuscirebbe a mantenere salde (o a riprendere) le redini del “villaggio globale” che, dopo il crollo dell’URSS, ha tentato di costruire.

Con nuove potenze in enorme crescita, potenze come Russia, Cina, India che sempre più spesso compiono scelte in contrasto con Washington, gli Usa si trovano oggi in difficoltà, e la crisi economica che colpisce soprattutto l’egemonia del dollaro non fa che peggiorare la situazione; ecco allora che il terrorismo ambientale è un’ottima strategia per poter imporre al mondo intero alcune scelte le quali potranno preservare l’egemonia a stelle e strisce. Più praticamente, oltre il Governo Mondiale vero e proprio, che non sarebbe altro che l’istituzionalizzazione della globalizzazione (coerentemente con il “Destino Manifesto” americano, che tradizionalmente postula che siano gli Stati Uniti a dover guidare l’intero globo), in ambito ambientale ci sono dei precisi campi d’azione con i quali si vuole preservare l’egemonia yankee. Primo fra tutti è il modo con cui si è deciso di applicare le riduzioni di emissioni nocive; gli Stati Uniti non hanno mai accettato e firmato il protocollo di Kyoto per un motivo semplicissimo: per loro avrebbe senso soltanto se venisse firmato dalle potenze in rapida crescita, in primis India e Cina, così che si possa mantenere l’attuale scarto a vantaggio degli USA; infatti applicare le suddette riduzioni significa investire in tecnologie e sicurezza , cosa che comporta una riduzione della ricchezza nazionale e quindi della crescita; ma finchè a dover investire sono tutti, gli attuali equilibri vengono mantenuti. Senza contare come gli Usa, da centro unipolare quale sono, cercano di accaparrarsi  le moderne tecnologie (soprattutto brevetti e cervelli), e lasciare agli altri le tecnologie obsolete. Purtroppo (per gli Usa) le cose non sono così facili: in primo luogo Cina e India non sono tenute a firmare Kyoto in quanto hanno diritto a pervenire allo “sviluppo” che in passato hanno raggiunto, senza badare agli effetti dell’inquinamento, le potenze occidentali; in secondo luogo, l’inquinamento pro capite di Cina e India è di circa 20 volte più basso di quello Usa, per via del gran numero della popolazione e per la vastità di questi Stati; quindi, porre dei freni (in questo modo) al loro inquinamento è un modo per colpire duramente la ricchezza nazionale e le popolazioni di quei Paesi (che per il livello economico e sociale in cui si trovano sono migliaia di anni luce in avanti rispetto all’Occidente riguardo l’utilizzo di materiali riciclati e sostenibili), a tutto vantaggio di una minoranza ricca occidentale, che in quel modo si assicura di preservare il proprio eccessivo stile di vita.

Un’altra conferma che l’interesse alla riduzione delle emissioni ha come scopo il mantenimento dell’egemonia occidentale a guida statunitense è il modo in cui questa verrà attuata. In pochi infatti fanno notare come la politica contro l’inquinamento presuppone un vero mercato borsistico in cui si metteranno in vendita porzioni di inquinamento; è il meccanismo definito Cap and Trade, secondo il quale le imprese che eccederanno nell’inquinamento potranno pagare, cioè comprarsi, quella quota eccedente. Peccato, ed è qui che si capisce l’inganno, che non si voglia fare una vera e propria tassa pubblica sull’inquinamento a tutto vantaggio degli Stati, ma che tutto questo debba avvenire in una borsa privata, la Chicago Climate Exchange (1), di cui la famigerata banca Goldman Sachs ha già provveduto a rilevare il 10%. È chiaro come in questo modo, con una borsa controllata dagli Stati Uniti, si ripropone il vantaggio che Washington ha avuto sino ad ora, per esempio grazie all’utilizzo del dollaro come valuta di riferimento mondiale. Chi controlla il banco vince, e protegge la propria supremazia. E per fare tutto questo, come detto, c’è bisogno di terrorizzare e globalizzare l’opinione mondiale, cosa che fanno egregiamente personaggi come Cohn-Bendit, leader ecologista legato a Joschka Fischer (2), che sulle pagine dei quotidiani propaganda il capitalismo, l’economia di mercato, afferma che non ci sono più ideologie e ci insegna come l’ecologismo sia il nuovo modo per attrarre consensi. O come fanno egregiamente le centinaia di film come l’ultimo “The age of stupid”, utili per creare allarme e convincere le popolazioni mondiali, primi fra tutti le classi dirigenti onusiane, che le misure sin qui citate sono necessarie per il bene di tutti.

Un’altro tema simile a quella ambientale, ma oggi lasciato in secondo piano, è quello “storico” relativo al problema dell’eccessivo peso demografico delle popolazioni mondiali. Per tutta una schiera di “studiosi”, infatti, il mondo si avvia verso la catastrofe poiché ha troppi abitanti. Conosciamo questa posizione perché ripetuta sin dagli anni 70, preannunciando disastri ambientali,  dal “Club di Roma”, e negli anni seguenti da varie agenzie dell’ONU, fino a giungere ai nostri giorni, in cui non è più propagandata come prima (è sostituita dai “disastri” ecologici), ma rappresenta il coerente completamento della “questione ambientale”. Basti pensare che il maggiore consigliere di scienza e tecnologia di Obama, John Holdren, ha scritto un libro (3) in cui auspica un “Regime Planetario” col quale attraverso una “forza di polizia globale” si possa amministrare la demografia mondiale. In questo libro arriva ad auspicare (leggere per credere) aborti forzati, sterilizzazioni forzate e via dicendo; come è facile notare, l’interesse è sempre quello di mantenere l’egemonia mondiale “statunitense” (o meglio delle elite mondialiste), ed infatti l’autore fra le altre cose afferma: “Per fortuna nella maggior parte dei Paesi Sviluppati, quasi tutti i gruppi si controllano nel riprodursi”; questo sottolinea come, ancora una volta, il problema, per costoro, sono le grandi masse dei “Paesi in via di sviluppo”, che producendo ricchezza stanno sfidando gli attuali equilibri mondiali. Non è un caso che da questi stessi ambienti si consideri estremamente positiva l’emigrazione (con spregio per i drammi umani che nasconde), in quanto questa concorre a creare un villaggio globale (la globalizzazione senza culture) e a spostare masse di sfruttabili, a tutto vantaggio del futuro centro del Governo Mondiale responsabile dell’amministrazione di tutto ciò.

Per concludere, è evidente come un miglioramento della situazione ambientale sia un vantaggio per tutti i popoli della terra, ma bisogna tenere gli occhi ben aperti e valutare chi e come dice di voler risolvere la questione. Quello che si sta notando in questi tempi in cui l’egemonia degli Usa è messa in pericolo da crisi economica e crescita di potenza di altri Stati, è l’interesse di Washington e dei suoi vassalli nel creare la necessità fittizia di un Governo Mondiale. In questo modo si riuscirebbe a mantenere ancora il decadente unipolarismo Usa, frenando il sorgente multipolarismo, garante di maggiore giustizia internazionale. Un approccio costruttivo e civile (nel senso proprio “di civiltà”) a tali questioni, quindi, non deve passare dalla creazione di un Governo Mondiale (che ricorda da vicino l’incubo preconizzato da Orwell), bensì attraverso la ricerca di sovranità, attraverso maggiore integrazione e cooperazione regionale e continentale fra Stati ed aree come lo spazio eurasiatico, il Sud America ecc. Solo un approccio di questo tipo garantirà equilibrio e giustizia nei rapporti internazionali e, di conseguenza, per le popolazioni di tutto il mondo.

1)      “Sarà la carbon-tax, lo vuole Goldman e Rothschild”, di Maurizio Blondet – www.Effedieffe.com, 12 luglio 2009

2)      Riprendo da un altro articolo: “Un’appendice particolare merita il presidente del Nabucco (il gasdotto “americano” antagonista di quello euro-russo South Stream): Joschka Fischer. Questo, nel sessantotto attivissimo esponente “rivoluzionario”, poi verde-ambientalista, oggi è a capo del progetto Nabucco; esso è membro del Council on Foreign Relations, la fondazione privata dei Rockefeller, che è praticamente il centro dove si teorizza la politica estera statunitense e da dove nascono sia il gruppo Bilderberg che la Trilateral (giganti del capitalismo e del liberismo sfrenato). Oltre a confermarci la totale sottomissione agli interessi Usa, questo ci fa notare come il percorso individuale di alcuni famosi personaggi, che dal liberale Sessantotto sono passati alla fine ideologica della politica rappresentata dai verdi e dagli ambientalisti, oggi siano fautori di interessi petroliferi e capitalistici statunitensi… non si pensi ad un’eccezione, è la regola”. http://www.cpeurasia.org/?read=30420

3)      Il libro è titolato “Ecoscience”; ne ha parlato ultimamente ancora M. Blondet riportando un articolo di “PrisonPlanet” titolato “Il maggiore consigliere scientifico di Obama auspicava il controllo forzoso della popolazione”. Per quanto riguarda John Holdren: http://en.wikipedia.org/wiki/John_Holdren

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Grecia / Legislative 2009: Campagna elettorale

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In Grecia, a metà della campagna elettorale per il rinnovo anticipato del Parlamento (si vota il 4 ottobre), prima della presentazione delle liste i sondaggi indicano il vantaggio del Pasok – Movimento socialista panellenico, di George Papandreou, su Nd – Nuova Democrazia, il partito del premier Kostas Karamanlis, in carica dal 2004. In una rilevazione pubblicata dal quotidiano “Kathimerini” (realizzata da Public Issue), Pasok è al 41%, seguito da Nd al 35.5%, Kke – Partito comunista 8.5%; Syriza – Coalizione della sinistra radicale 4%, Laos – Partito popolare ortodosso 7%; Verdi ecologisti 2%; altri 2%. Anche altri sondaggi indicano il Pasok primo partito con un vantaggio oscillante dal 4.7% al 5.9%. Ma se dal dato percentuale si passa al numero di seggi, considerando il distacco più ampio (5.9) Pasok oscillerebbe tra i 148 e i 152, ovvero – nel dato più favorevole – un vantaggio di due seggi nell’Assemblea Nazionale (composta da 300 deputati). Sarebbe lo stesso rapporto di forze tra Nd e Pasok – a parti scambiate – risultato dalle precedenti elezioni nel settembre 2007.

A sinistra del Pasok non vi sono rilevazioni concordanti circa il risultato di Kke (tra il 5.5% e il 9%), mentre Syriza è tra il 3.5% e il 4.5%. I Verdi ecologisti, dopo il riscontro positivo delle elezioni europee di giugno, nella maggior parte delle rilevazioni sono al 2% tranne in una, dove con il 3.1% entrerebbero in Parlamento. Pasok potrebbe formare un governo monocolore ma, come già per Nd negli ultimi due anni, si troverebbe con una maggioranza minima, che in una fase politica, economica e sociale complessa come quella attuale, potrebbe essere prevedibilmente sottoposta a una opposizione netta, sia da sinistra (Syriza e Kke) sia dal centrodestra (Nd) sia soprattutto – a destra di Nd – da Laos di Georgios Karatzaferis, in costante crescita in tutte le elezioni dal 2004 a oggi.

Un confronto a distanza tra Karamanlis e Papandreou si è avuto tra il 13 e il 14 settembre, dopo la presentazione del programma del Pasok, con riferimento particolare ai temi dell’economia, alla 74esima Fiera Internazionale di Thessaloniki. Il leader del Pasok – una delle formazioni aderenti al Pse (Partito socialista europeo) più forti a livello nazionale – considerando l’attuale fase di crisi ha presentato un piano economico per i primi cento giorni, da attuare con il sostegno congiunto degli imprenditori, dei lavoratori e di tutte le forze produttive. Il Pasok propone di riavviare il mercato attraverso investimenti pubblici, a partire dal settore edilizio e da quello energetico, il rilancio delle aree rurali, il sostegno ai redditi medio-bassi con un aumento dei salari, una razionalizzazione delle spese statali e una riforma del sistema fiscale che porti a una redistribuzione della ricchezza.

Questo programma sarebbe avviato nei primi tre mesi della nuova legislatura con l’approvazione di leggi specifiche, in accordo con l’Unione Europea. A partire da questi primi provvedimenti, dovrebbe avviarsi un programma più ampio di sviluppo e stabilità da completare in tre anni. Insieme ai provvedimenti strutturali, Papandreou sostiene la necessità di un rinnovamento dell’immagine della politica, attraverso riforme in ambito elettorale, di regolamentazione parlamentare, e di decentramento amministrativo.

Karamanlis ha replicato a quanto prospettato da Papandreou per l’economia, considerandolo un programma vago e generico, con promesse irrealizzabili e concessioni in ogni direzione, al punto da moltiplicare i problemi piuttosto che risolverli. “Noi ci stiamo appellando a tutti i cittadini con un messaggio chiaro, per prendere decisioni difficili oggi in modo che i nostri figli possano avere un domani sicuro”, ha detto il primo ministro in occasione di un incontro del suo partito. Il 2010, sottolinea Karamanlis, sarà decisivo per l’economia, poichè l’intensità della crisi e la durata delle conseguenze sfavorevoli dipenderanno dalle politiche che saranno implementate. Critiche al piano economico di George Papandreou anche da Kke e Syriza, che lo considerano un programma di austerità non differente da quello di Nd. Alexis Tsipras, presidente di Synaspismos – Coalizione della Sinistra dei Movimenti e dell’Ecologia (la componente più grande di Syriza) ha detto che “la società vuole una politica differente da quella che porta all’incertezza del lavoro”.

Georgios Karatzaferis, leader di Laos, ipotizza che il suo partito potrebbe conseguire un risultato elettorale significativo, fin quasi al punto da poter ambire a diventare il terzo partito. Una ipotesi conseguente sia ai dati delle rilevazione realizzate sia al consenso riscontrato sul programma, ricordando ad esempio la convergenza su Laos del Partito degli ecologisti di Grecia. Karatzaferis ha criticato sia Nd sia Pasok, ritenendoli incerti nella gestione dei temi di interesse nazionale e non esclude che, dopo le elezioni, tra i due maggiori partiti vi possa essere un avvicinamento, sebbene Nd abbia preferito escludere esecutivi di coalizione.


Fonte: http://www.ninniradicini.it/

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Luca Donadei, Europa a mano armata

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Luca Donadei
Europa a mano armata
prefazione del Gen. Fabio Mini

Fuoco edizioni, Roma 2009
Pagine 382, Formato 14cm x 20,5cm
ISBN 9-788890-375217

Il libro

A quasi venti anni dalla fine della Guerra Fredda, l’Europa non ha raggiunto quello stato di pace e sicurezza che tutti speravano. Oggi, come ieri, vengono consumati miliardi di euro per il settore difesa. Tra i primi dieci Paesi al Mondo per spesa nel settore militare, cinque sono europei.

In realtà il confronto Est-Ovest non si è mai esaurito e la guerra nella ex Yugoslavia non ne è stato altro che un tragico colpo di coda. L’unica variante è che, attualmente, all’Orso Russo si è aggiunto il Dragone Cinese ed il Vecchio Continente, pur con i suoi sempre accesi nazionalismi e sotto il perenne ombrello protettore della NATO, cerca a fatica di difendere il proprio ruolo di potenza egemone plurisecolare.

Il saggio di Luca Donadei è arricchito con l’Almanacco delle Forze Armate Europee 2009, un ricco manuale pieno di dati ed informazioni sullo stato della difesa di ogni singolo Stato europeo.

L’Autore

Luca Donadei, dottore in Scienze politiche, ha collaborato con organismi internazionali e locali sul tema delle migrazioni.

In Eurasia. Rivista di studi geopolitici ha pubblicato i seguenti saggi:

L’Impero di Mezzo è già in Italia (nr. 1/2006, pp. 77-84), Le rotte dei migranti e dei rifugiati. L’Italia, ponte fra Sud e Nord (nr. 4/2006, pp. 75-90).

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Carl Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra

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Carl Schmitt
Il concetto discriminatorio di guerra
introduzione di Danilo Zolo, traduzione di Stefano Pietropaoli
Laterza, Bari 2008
ISBN 9788842085034
pp. 128 | € 15,00

In breve

«Attraverso le dichiarazioni con cui il presidente Wilson, il 2 aprile 1917, ha deciso che il proprio paese partecipasse alla guerra mondiale contro la Germania, è entrato nella storia del moderno diritto internazionale il problema del concetto discriminatorio di guerra. Per le nazioni con una forma mentis chiaramente relativistica o agnostica, oggi non esiste più alcuna guerra santa, sebbene le esperienze della guerra mondiale contro la Germania abbiano mostrato come la propaganda bellica non abbia rinunciato a mobilitare quelle forze morali che sono comprensibili solo in una ‘crociata’. Ma per una guerra giusta la mentalità moderna esige determinati processi di ‘positivizzazione’ giuridica o morale.»

In queste pagine, pubblicate per la prima volta nel 1938, Schmitt propone una interpretazione fortemente suggestiva delle relazioni fra la ‘vecchia Europa’ e il ‘nuovo mondo’ americano e offre una preziosa chiave di lettura degli imponenti successi che la vocazione messianica ed egemonica degli Stati Uniti ha conseguito nella seconda metà del Novecento.
Danilo Zolo

Indice
Prefazione
La profezia della guerra globale di Danilo Zolo

Nota al testo di Stefano Pietropaoli –

Introduzione
– I. Discussione di due opere di teoria del diritto internazionale
– II. Discussione di due saggi tratti da The British Yearbook of International Law
– III. Discussione critica sulla svolta verso il concetto discriminatorio di guerra nel diritto internazionale
– Conclusione

Dall’Introduzione:

Da molti anni sono in corso nelle più diverse parti della terra lotte sanguinose, di fronte alle quali, nel consenso più o meno generale, si evita prudentemente di usare il concetto e il termine di guerra. Su questo è sin troppo facile fare dell’ironia. In realtà, non emerge qui nient’altro che la pura e semplice verità, ovvero che vecchi ordinamenti si stanno dissolvendo e al loro posto non ne sono ancora subentrati di nuovi. Nella questione del concetto di guerra si rispecchia il disordine dell’attuale situazione mondiale. Si manifesta ciò che è sempre stato vero, e cioè che la storia del diritto internazionale è una storia del concetto di guerra. Il diritto internazionale altro non è che un “diritto di guerra e di pace”, uno jus belli ac pacis, e rimarrà tale finché sarà un diritto di popoli indipendenti, organizzati su base statuale, e questo significa: finché la guerra sarà una guerra fra Stati [Staatenkrieg] e non una guerra civile internazionale [internationaler Bürgerkrieg]. Ogni disgregazione di vecchi ordinamenti e ogni inizio di nuovi rapporti solleva questo problema. All’interno di un medesimo ordinamento giuridico internazionale non possono coesistere né due concetti di guerra contrapposti, né due nozioni di neutralità che si annullino a vicenda. Per questo il concetto di guerra è oggi un problema la cui discussione obiettiva serve a disperdere la nebbia delle attuali ingannevoli finzioni e a mostrare la reale situazione del diritto internazionale odierno.

Le grandi potenze hanno oggi molte buone ragioni per cercare nozioni e concetti intermedi tra guerra aperta e pace effettiva. Le situazioni di fatto che vengono denotate con la formula “guerra totale” si avvicinano in maniera particolare a certe nozioni intermedie. Ma queste sono solamente rimandi e rinvii, attraverso i quali il nuovo problema del concetto di guerra non può in alcun modo essere risolto. Decisivo è che nella totalità di una guerra rientra soprattutto la sua giustizia. Senza il riferimento alla giustizia ogni rivendicazione di totalità sarebbe una vana pretesa. Di conseguenza, la guerra giusta in grande stile è oggi di per sé la guerra totale.

Attraverso le dichiarazioni con cui il presidente Wilson, il 2 aprile 1917, ha deciso che il proprio paese partecipasse alla guerra mondiale contro la Germania, è entrato nella storia del moderno diritto internazionale il problema del concetto discriminatorio di guerra. Per questo la questione della guerra giusta si è posta in una maniera completamente diversa da come era stata intesa dai teologi scolastici o da Ugo Grozio. Per le nazioni con una forma mentis chiaramente relativistica o agnostica, oggi non esiste più alcuna guerra santa, sebbene le esperienze della guerra mondiale contro la Germania abbiano mostrato come la propaganda bellica non abbia affatto rinunciato a mobilitare quelle forze morali che sono comprensibili solo in una “crociata”. Ma per una guerra giusta la mentalità moderna esige determinati processi di “positivizzazione” giuridica o morale.

La Società delle Nazioni di Ginevra è, se proprio dev’essere qualcosa degno di nota, fondamentalmente un sistema di legalizzazione. Essa non può che monopolizzare il giudizio sulla guerra giusta e mettere nelle mani di certe potenze la decisione sulla giustizia o ingiustizia della guerra, una decisione che è gravida di conseguenze e che è correlata alla svolta verso il concetto discriminatorio di guerra. La Società delle Nazioni è dunque, finché conserva questa forma, solo un mezzo per la preparazione di una guerra “totale” in sommo grado, e cioè una guerra “giusta” condotta con pretese sovrastatali e sovranazionali.

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Stefano Pietropaoli, Abolire o limitare la guerra?

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Stefano Pietropaoli
Abolire o limitare la guerra?
Una ricerca di filosofia del diritto internazionale
Polistampa 2008,
pp. 208, € 18,00
ISBN: 978-88-596-0427-3

Il libro

Può il diritto limitare la violenza della guerra? È possibile regolare giuridicamente l’avvio, la condotta e la conclusione di un conflitto armato? Il desiderio di “abolire” la guerra sul piano giuridico è espressione di un’utopia irenista? Oppure non è altro che la pretesa di trasformare la guerra in un’azione di polizia internazionale, illimitata e discriminante, contro un nemico dell’umanità?

A queste domande, la cui attualità è ribadita dalla escalation di conflitti armati degli ultimi anni, il volume risponde mediante una ricostruzione delle proposte teoriche che hanno segnato la storia del rapporto tra guerra e diritto, dalla elaborazione del diritto bellico romano alla dottrina della guerra giusta medievale, fino all’esperienza del diritto internazionale classico della prima età moderna e al suo tragico epilogo con il primo conflitto mondiale.

Organizzazione dell’opera:

1. BELLUM JUSTUM. DAL DIRITTO BELLICO ROMANO ALLA «GUERRA GIUSTA» DEL MEDIOEVO CRISTIANO

Il diritto internazionale antico e il problema della guerra – Guerra e diritto nel mondo romano – La dottrina medievale della «guerra giusta» – Il dominio spagnolo e la conquista del Nuovo Mondo. Dallo jus gentium allo jus inter gentes – La Seconda Scolastica e la disputa teologica sulla conquista

2. LA «GUERRA REGOLATA» DEL DIRITTO INTERNAZIONALE CLASSICO

Premessa – Il superamento della Seconda Scolastica e la nascita del diritto internazionale moderno – I padri del diritto internazionale – La riscoperta umanistica del diritto feziale – Le regole di condotta della guerra. Dalle elaborazioni seicentesche alle codificazioni dell’Ottocento – La codificazione del diritto di guerra – La «linea dell’emisfero occidentale»

3. VERSO LA GUERRA DISCRIMINATORIA

Processare il nemico: verso un «giustizia politica internazionale» – L’ultima guerra – Processare il Kaiser. La svolta verso un nuovo ordinamento internazionale – Carl Schmitt e il declino dello jus publicum europaeum

Quattro excursus conclusivi – Bibliografia – Indice dei nomi

L’Autore

Stefano Pietropaoli, dottore in Giurisprudenza (Università di Firenze), dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali (Università di Pisa), segretario del centro di ricerca Jura Gentium, assegnista presso il Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto (Università di Firenze). Contributi pubblicati in Eurasia. Rivista di studi geopolitici: Dalla guerra limitata alla guerra senza limiti. Ascesa e declino dello jus publicum europaeum (nr. 4/2007, pp. 115-143)

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Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica

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In questi tempi in cui il processo di globalizzazione limita gli spazi del permessivismo internazionale, l’UNASUR può diventare uno strumento d’autonomia di grande successo per i nostri paesi. In questa congiuntura storica non c’è niente di più favorevole che la creazione di una massa dottrinaria che risponda alle urgenti esigenze d’integrazione latinoamericana, osserva il professor Helio Jaguaribe nel prologo del Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica, diretto da Miguel Ángel Barrios ed elaborato da un gruppo di ricercatori latinoamericani.

Il processo di globalizzazione, con i suoi possenti effetti denazionalizzanti, riduce in maniera violenta e accelerata lo spazio di permissività internazionale dei paesi sottosviluppati. Simili processi difendono gli aspetti formali della sovranità di questi paesi, come l’inno nazionale, la bandiera, gli eserciti da parata, le elezioni – quando si riferisce a società democratiche -. Tuttavia, premure irrefrenabili di carattere economico, finanziario, tecnologico, politico, culturale e, quando si rende necessario, militare, costringono i dirigenti di quelle nazioni, lo vogliano o no, ad adottare politiche compatibili alle esigenze del mercato internazionale. Questo impegno li porta a trasformarsi, di fatto, in semplici segmenti del mercato internazionale, internamente controllato dalle grandi multinazionali e, esternamente, dai centri del potere mondiale, asserisce il politologo brasiliano. Ed è in questo modo che paesi come l’Argentina e il Brasile – così come il resto dei paesi sudamericani – da soli non possiedono alcuna possibilità di costruirsi un proprio destino.

L’Unasur, e il suo successo, rappresentano l’unica condizione per diventare autonomi nel secolo XXI, e questo successo potrà essere efficace solo se poggia in una visione condivisa del mondo. Ha a che fare con qualcosa che ancora non si è raggiunto ma che, ciò nondimeno, non potrà non avvenire, man mano che si procede a un’analisi obiettiva delle grandi tendenze geopolitiche che ora si possono osservare nel mondo, rileva Jaguaribe. Nello stesso tempo, è importante osservare che l’Unasur sarà possibile solo se i suoi partecipanti rinunciano a qualsiasi pretesa di leadership unilaterale e agiscano, senza eccezione, in conformità a un previo consenso d’interesse regionale, leadership che nell’America meridionale – come di solito in altre regioni – dipendono dal fatto che sono emanate da proposte e progetti che sono vantaggiosi per gli altri paesi della regione, fa notare l’accademico.

In questo senso, l’edizione del  Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica colma un vuoto e apporta un’analisi attuale dello scenario internazionale a partire da una necessaria logica sudamericana e, in parte, rimedia un deficit sulla tematica, in funzione della geopolitica della globalizzazione, il che lo fa diventare un’opera innovatrice su molti aspetti, assicura Jaguaribe riferendosi al libro diretto da Barrios e compilato da un’equipe di ricercatori latinoamericani. Dal canto loro, il professor Andrés Rivarola Puntigliano e l’accademico spagnolo Rafael Calduch Cervera, i quali hanno anche collaborato al prologo della pubblicazione, nei loro lavori s’incaricano di sviluppare un nuovo concetto di “geopolitica” applicabile all’America latina con la comparsa di nuovi conglomerati sudamericani mediante l’Unasur, nel primo caso. Dal canto suo, il professor Calduch Cervera descrive la comparsa di un nuovo sistema di politico-strategico multilaterale e includente, differenziandosi dai modelli precedenti incentrati sul bipolarismo.

Nel prologo dell’opera, il professor Miguel Ángel Barrios presenterà un approccio innovativo. Nell’equilibrio dei poteri a variante multipolare del secolo XXI, la novità storica si fonda sul fatto che per la prima volta nella storia del sistema-mondo iniziato nel secolo XV con l’unificazione temporale e spaziale della Terra, l’Occidente non si collocherà come il soggetto attore escludente, bensì uno dei soggetti attori, sostiene l’accademico.

Interpretiamo la geopolitica del secolo XXI come il pensiero politico inserito nello spazio e nel tempo latinoamericano. È impossibile creare un potere duro omogeneo in un sistema-mondo instabile, dove gli stati continentali industriali armonizzano –come da sempre è accaduto nella storia- la politica estera mediante un energico sostegno delle politiche di difesa industriale. Ciò può essere possibile mediante l’applicazione di una profonda riforma che passi per una sud americanizzazione dei nostri contenuti educativi, compito ancora in sospeso. A tal fine, diventa necessario presentare questo Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica come un’introduzione, non chiusa, bensì dinamica, aperta al dibattito e all’arricchimento che dovrà svolgere, asserisce Barrios.

L’equipe interdisciplinare che l’ha redatto è composta di militari e membri appartenenti alle diverse forze di sicurezza latinoamericane, con alta responsabilità operativa professionale ma, allo stesso tempo, sono accademici e scienziati sociali, uomini e donne. L’equipe possiede questo valore aggiunto, poiché il capitale sociale e culturale accumulato si riflette profondamente in queste pagine.

Il nostro proposito è stato anche quello di realizzare un dizionario didattico dove il bagaglio tecnico non escluda l’accezione politica, sociale, accademica, strategica e, soprattutto, quotidiana. Il lettore ci giudicherà. Il Dizionario non è neutro. La Patria Grande di Manuel Ugarte alimenta e custodisce ciascuna delle definizioni. Rendiamo evidente sin dall’inizio il nostro obiettivo: la necessità di materializzare lo Stato continentale industriale sudamericano, osserva il direttore di quest’opera singolare.

Carlos Pereyra Mele Specialista di geopolitica sudamericana

(trad. di V. Paglione

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Brzezinski: Se Israele attacca l’Iran, i suoi bombardieri dovranno essere intercettati

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Fonte: http://www.voltairenet.org/
21 settembre 2009

Il braccio di ferro tra Washington e Tel Aviv si indurisce. Intervistato dal giornalista ‘anti-cospirazionista’ Gerald Posner del sito Daily Beast, Zbigniew Brzezinski ha fatto appello alla fermezza, se Israele oltrepassa gli ordini degli Stati Uniti e attaccasse l’Iran.

Daily Beast è un sito che conta gente come Tony Blair e Condoleezza Rice tra i suoi collaboratori regolari. Mr. Brzezinski, che fu consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter e formò il giovane Barack Obama nelle relazioni internazionali, è ancora il segretario generale della Commissione Trilaterale.

Ha detto che se i bombardieri israeliani attraverseranno lo spazio aereo iracheno per attaccare l’Iran, gli Stati Uniti non dovrebbero esitare a intercettarli o a distruggerli, come come fece Israele quando attaccò senza esitazioni, l’USS Liberty, durante la Guerra dei Sei Giorni.

Traduzione di Alessandro Lattanzio.
http://www.aurora03.da.ru
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Il Generale Beg accusa la Blackwater di aver assassinato Hariri e la Bhutto per conto di Washington

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Fonte: http://www.voltairenet.org/article162189.html
21 settembre 2009

In un’intervista trasmessa il 20 Settembre 2009 dalla Televisione Pakistana, il Generale (in pensione) Mirza Aslam Beg ha accusato gli USA di aver ordinato l’assassinio del Prima Ministra pakistana Benzair Bhutto e dell’ex primo ministro Rafik Hariri. Ha detto che tali operazioni sono state eseguite dalla società privata Blackwater (ora chiamata Xe).

Il Generale Beg è stato capo di stato maggiore interarma dal 1988 al 1991. Ha prestato servizio sotto gli ordini del presidente Ghulam Ishaq Khan e del Primo Ministro Benazir Bhutto, al suo il primo mandato.

Il Generale Beg (con Mumtaz Bhutto, Elahi Bux Soomro e il Generale Gul), nel 2002 ha fatto molto per diffondere in Pakistan le analisi di Thierry Meyssan sull’11 Settembre, rimanendo estremamente attivo in politica attraverso il think tank che presiede, la Foundation for Research on International Environment National Development and Security.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Africa-America Latina per un mondo senza istituzioni dominate dagli Stati Uniti

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Fonte: http://www.voltairenet.org/article162187.html
21 settembre 2009

Sessantasei delegazioni nazionali, di cui una ventina guidate dai capi di Stato, saranno presenti al secondo summit Africa-America Latina (26-27 settembre), sull’isola di Margarita (Venezuela).

Il vertice sarà co-presieduto dal presidente del Venezuela Hugo Chavez (in qualità di ospite) e dal presidente dell’Ecuador Rafael Correa (in qualità di presidente dell’UNASUR). In questa occasione, l’istituzione di voli diretti tra i due continenti dovrebbe essere annunciata.

Le delegazioni discuteranno la proposta venezuelana per la creazione di una moneta comune, per regolare il commercio internazionale tra paesi del Sud, in sostituzione del dollaro. Studieranno i progressi della Banca del Sud, che mira a sostituire la Banca Mondiale per i paesi in via di sviluppo, e quelli del fondo creato dal Venezuela e dall’Iran per sostituire il Fondo monetario internazionale.

Dal primo vertice (Abuja, Nigeria), di due anni fa, l’idea di un’organizzazione nel Sud al di fuori delle istituzioni dominate dagli Stati Uniti ha cominciato a prendere piede. Un quarto degli Stati interessati sono già coinvolti in un modo o nell’altro in queste iniziative.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Ridurre la popolazione per lottare contro il riscaldamento globale

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Fonte: http://www.voltairenet.org/article162212.html
23 settembre 2009

Leader storico del Green Party del Regno Unito, direttore di Friends of the Earth (Amici della Terra) e del Forum per il Futuro (Forum for the Future), Jonathon Porritt è divenuto l’esperto inevitabile nelle discussioni sull’ambiente, nei media britannici. Oltre alla sua attività come direttore di un potente consorzio per la distribuzione dell’acqua potabile, Wesser Water, ha sviluppato un importante think tank: la Optimum Population Trust, dedicata allo studio dei problemi della demografia.

Osservando le difficoltà che incontra la popolazione mondiale nel suo ambiente naturale, non giunge a una necessaria revisione della società dei consumi, ma a una indispensabile riduzione, della metà, della popolazione mondiale.

Durante i suoi interventi più recenti, Jonathan Porritt ha sostenuto la riduzione della popolazione del Regno Unito, da 61 a 30 milioni di persone. Non sorprende che voglia favorire lo sviluppo del controllo delle nascite, la contraccezione e l’aborto. Ha assicurato che il suo piano globale è il meno costoso per fermare il riscaldamento globale.

Jonathan Porritt è il principale consigliere per l’ambiente del principe Carlo e del primo ministro laburista Gordon Brown. Le sue teorie sono ben accolte, sia a sinistra che a destra. Il leader dell’opposizione conservatrice David Cameron, vi si mostra disponibile. Tuttavia, alcune voci si oppongono, anche dall’ambito dei Verdi, tra cui il giornalista ambientalista del Guardian, George Monbiot. Quest’ultimo non critica l’aspetto autoritario della politica di riduzione démografica (soprattutto perché la sua soluzione personale per la lotta contro il cambiamento climatico è l’introduzione delle razioni di CO2), ma denuncia una politica che potrebbe dare un colpo fatale alla crescita economica e al capitalismo.

In ultima analisi, nella discussione, l’argomento del riscaldamento globale è secondario. Ciò che è in gioco è il rilancio del malthusianesimo. Così, Jonathan Porritt, sempre favorevole a ridurre la popolazione del Regno Unito, preconizza il divieto all’immigrazione. Ciò gli è valso il sostegno del Ministro per l’Immigrazione, il laburista Phil Woolas.

Leggi anche l’articolo di Matteo Pistilli:
Terrorismo Ambientalista e Governo Mondiale

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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L’usignolo e la rosa. Arte e cultura dall’Iran

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“L’usignolo e la rosa. Arte e cultura dall’Iran”

a cura di Stefano Russo

26 settembre – 2 ottobre 2009

Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma

Casali di Ponte di Nona
Via Raul Chiodelli, 105 – Roma

Dal 26 settembre 2009 la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma ospita nella sede dei Casali di Ponte di Nona l’evento L’usignolo e la rosa, manifestazione dedicata allo scambio culturale tra l’Italia e l’Iran, con l’intenzione di ampliare e consolidare l’amicizia tra i due Popoli e di promuovere lo sviluppo sostenibile mediante lo studio e la reinterpretazione in chiave contemporanea degli efficienti espedienti architettonici e dei materiali naturali tipici delle costruzioni dell’altopiano iranico.

L’usignolo e la rosa prevede un fitto programma di attività.

Sabato 26 settembre 2009 alle ore 16.00 si apre la manifestazione con l’inaugurazione della mostra fotografica “Volti dell’Iran. Il popolo dell’altopiano iranico” a cura dell’Associazione di volontariato ‘we have a dream’. Ritratti di bambini, donne e uomini che, colti nelle loro occupazioni quotidiane, ci sorridono attraverso l’obiettivo; un piccolo spaccato della vita quotidiana della gente dell’altopiano iranico.

La mostra vuole essere un invito alla riflessione e alla conoscenza di culture diverse dalla nostra, al di là della campagna mediatica che, in Occidente, mette l’accento solo su alcuni aspetti del Paese, spesso criminalizzando un intero popolo.

Segue l’apertura della mostra “Architettura sostenibile.
L’altopiano iranico fonte di civiltà e ispirazione”. L’esposizione, curata dall’arch. Stefano Russo, si propone di indagare l’architettura e l’urbanistica tradizionale persiana, alla scoperta degli accorgimenti che l’uomo nei secoli ha ideato per creare edifici confortevoli e infrastrutture funzionali in un territorio particolarmente difficile dal punto di vista climatico.

Attraverso fotografie, piante e disegni esplicativi viene illustrata un’architettura antica, ma oggi più che mai attuale dal punto di vista della sostenibilità e bioclimaticità. I visitatori potranno inoltre assistere alla proiezione del documentario storico “Sette volti di una civiltà”.

Il programma continua con un’intervista al documentarista iraniano Kamiar Faroughi, condotta dal giornalista Diego Santagata, e la proiezione del suo film “Nel cuore del Kavir”.

Seguirà un omaggio alla grande tradizione poetica persiana: sorseggiando tè, sarà possibile ascoltare dalle voci di Tajjebeh Taheri, in farsi, ed Enrico Petronio, in italiano, una selezione dei più bei componimenti di Ferdousi, Khayyam, Sa’di, Rumi, Hafez e Forugh Farrokhzad, accompagnati da brani di musica tradizionale eseguiti da Pejman Tadayon.

La giornata si chiude con il concerto del gruppo iraniano Nava’, la cui ricerca si situa a metà strada tra la tradizione classica persiana e quella delle musiche popolari iraniche, con particolare attenzione al repertorio dei brevi poemi musicati. I timbri strumentali, le melodie vocali, eseguite all’unisono con gli strumenti o in melismatici contrappunti, le ritmiche, spesso asimmetriche, conferiscono alla musica di Navà quell’atmosfera tipicamente persiana, unica nel contesto delle musiche orientali.

Lunedì 28 settembre 2009 alle 15.00 inizia un seminario sull’architettura sostenibile dell’altopiano iranico.

Intervento di apertura del prof. arch. Lucio Barbera, Preside della Facoltà di architettura “Ludovico Quaroni”, La Sapienza.

Relatori

arch. Maurizia Manara, libera professionista specializzata in urbanistica, archeologia e architettura iraniana. Consigliere della A.L.A. (Associazione Archeologica Lombarda) e docente presso la Fondazione Humaniter (corso di archeologia), dal 1990 membro della Missione Archeologica Italiana di Iasos (Turchia);

arch. Luciana Manzi, nata a Roma, dal 1991 vive e lavora, come libera professionista, a  Teheran;

prof. arch. Ahmad Sebt Hosseini, nato a Tabriz, oltre ad insegnare nelle facoltà di architettura e turismo di Teheran e Zahedan, si interessa all’architettura sostenibile da molti anni;

prof. arch. Mohammad Taghi Rezayee Hariri, membro del Gruppo Architetti, Paradiso delle Belle Arti, dell’Università di Tehran, dal 1970, nonché membro del consiglio Scientifico delle Ricerche Internazionali dell`Energia dal 1994, è uno dei massimi esponenti dell’architettura sostenibile in Iran e, oltre ad aver progettato diversi edifici sostenibili, è stato docente delle università di Teheran, Tabriz, Esfahan, Shiraz e Vienna;

arch. Rassul Heydarian, vive e lavora come libero professionista a Bushehr.

Coordina l’arch. Daniela Bianchi dello Studiobioarch.

Sarà rilasciato un attestato ai partecipanti che da’ diritto a crediti nelle facoltà universitarie aderenti.

Fino al 2 ottobre 2009 resteranno aperte le mostre “Architettura sostenibile. L’altopiano iranico fonte di civiltà e ispirazione” e “Volti dall’Iran. Il popolo dell’altopiano iranico”, e sarà proiettato il documentario sulla storia dell’Iran “Sette volti di una civiltà”.

Il pomeriggio dei giorni 30 settembre, 1 e 2 ottobre saranno organizzate dal curatore delle visite guidate alla mostra. Su prenotazione per minimo 10, massimo 25 persone.

Nel pomeriggio del 27 e 29 settembre e nella mattina del 1 ottobre saranno organizzate dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma delle visite guidate al sito archeologico della città di Gabii e di un’area di grande interesse archeologico, di recente scoperta, sita tra il V e il VII Municipio. Su prenotazione per minimo 25, massimo 50 persone.

Catalogo: Gangemi Editore

Info: info@wehaveadream.info, www.wehaveadream.info, www.studiobioarch.it

Ufficio stampa: ufficiostampa@wehaveadream.info

Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma  Casali di Ponte di Nona

Via Raul Chiodelli, 105 – Roma (uscita PONTE DI NONA della  A24 in direzione L’Aquila) Orario: 9.00 – 13.00, 16.00 – 18.30 – ingresso gratuito

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UBS e l’egemonia del dollaro

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Osservando gli abissali deficit della bilancia commerciale e del bilancio di previsione degli Stati Uniti, molti economisti hanno annunciato una fine prematura del predominio del dollaro come moneta internazionale. Tuttavia, le cose sono in realtà più complesse. Il denaro non è solo una unità di conto ed uno strumento di riserva, ma anche un mezzo di azione, un segno del potere politico. È costitutivo della forma di Stato. Il dollaro non è solo la moneta dello stato nazionale statunitense, ma anche espressione della funzione “imperiale” di quest’ultimo.

Indebolito in termini strettamente economici, il dollaro è la forza politica dello stato nordamericano per cercare di mantenere le sue prerogative mondiali. È nell’ambito del mantenimento dell’egemonia del dollaro, che obbliga i capitali a investire nella propria zona economica, che si dovrebbe leggere la ristrutturazione del sistema finanziario internazionale attualmente in corso, di cui l’attacco contro la UBS Swiss Bank costituisce l’operazione principale.

UBS : cavallo di Troia del fisco USA

Il 19 agosto (2009) scorso, l’UBS e il fisco statunitense hanno firmato un accordo che temporaneamente mette fine alla questione dell’evasione fiscale che li opponeva. L’accordo consente alla banca di evitare un processo. Tuttavia, l’UBS deve consegnare i nomi di circa 4.450 titolari di conto di contribuenti americani sospettati di evasione fiscale. Questi dati saranno trasmessi per via ufficiale dell’assistenza amministrativa. Le autorità svizzere hanno in tal modo legalizzato il nuovo equilibrio di potere e il fisco americano ha ricevuto l’approvazione per indagare le altre banche svizzere. L’abolizione della distinzione frode/evasione fiscale, operata dal governo della Confederazione per uscire fuori dalla lista grigia dei paradisi fiscali elaborata dall’OCSE, offre nuove prospettive per le richieste delle amministrazioni fiscali estere. Le autorità svizzere cercano innanzitutto di evitare le reti da pesca, vale a dire ottenere informazioni sulla base di semplici sospetti e non su informazioni specifiche, come ad esempio i nomi degli evasori, le società coinvolte, i numeri dei conti … Tuttavia, a questo livello nulla è  definitivo. Infatti, dopo l’inizio di tale questione, tutto si gioca in funzione dei rapporti di forza.

In effetti, questo nuovo accordo tra l’UBS e l’amministrazione americana servirà come uno standard per definire le dimensioni della rete con cui il fisco americano andrà a pescare gli evasori, dapprima nella piazza finanziaria svizzera e poi in quelle dei paesi terzi.

L’accordo del febbraio 2009, con il quale la banca UBS ha inizialmente accettato, in violazione del diritto svizzero, di consegnare alla giustizia american il nome di circa 250 clienti, che aveva aiutato a sfuggire alle autorità fiscali degli Stati Uniti, non aveva fermato la giustizia statunitense. Non appena è stato firmato l’accordo quest’ultima ha richiesto chiesto alla UBS di consegnarle l’identità di circa 52 000 clienti statunitensi, titolari di “conti segreti illegali”. Il nuovo accordo sospende tali richieste. Ciò è, a prima vista e contro tutte le aspettative, particolarmente favorevole per la banca svizzera. L’UBS, che aveva già pagato una multa di $ 780 milioni nel mese di febbraio, non dovrebbe pagare ulteriori sanzioni. Si tratta di un eccezione alla prassi abituale del fisco americano. Fatto ancora più sorprendente: è previsto che, se dopo un anno, la banca non ha rispettato i suoi impegni, nessuna penalità finanziaria sarà adottata contro di essa. Questo atteggiamento del governo degli Stati Uniti può essere compreso se si ipotizza che l’imposta americana non voglia creare difficoltà finanziarie alla banca. Non c’è, infatti, alcun interesse a uccidere un cavallo di Troia, che fino ad oggi ha servito molto bene, e soprattutto che può ancora essere molto utile. L’UBS è molto dipendente dal mercato americano ed è quindi particolarmente vulnerabile alle pressioni del fisco USA. Questo è meno vero per le altre banche svizzere. I progressi di questo caso ci dice che dobbiamo quindi aspettarci ulteriori attacchi dagli Stati Uniti contro la piazza finanziaria svizzera.

Una riorganizzazione USA del sistema finanziario internazionale

L’azione del governo degli Stati Uniti contro la banca svizzera utilizza un’operazione contro l’evasione fiscale dei suoi cittadini per modificare, a suo vantaggio, le regole del sistema bancario mondiale.

La risposta positiva della UBS alle ingiunzioni del fisco USA, come la legittimazione della consegna delle informazioni fornite dalle autorità svizzere di vigilanza, pongono l’amministrazione statunitense in una posizione che le permette di fare sempre nuove richieste. La sovranità americana si definisce non solo come la capacità di sollevare l’eccezione e di stabilire uno stato permanente di emergenza ponendo sempre nuove richieste, ma soprattutto per stabilire la base su cui ricostruire un nuovo ordine giuridico internazionale.

La creazione di un puro equilibrio di potenza non è solamente una prima forma di azione. Le autorità statunitensi hanno poi la possibilità di far legittimare, dovunque, i nuovi diritti loro concessi.

Questa nuova sovranità americana è parte di una riorganizzazione del sistema finanziario internazionale in loro favore. Attraverso la lotta contro l’evasione fiscale, questa operazione distingue “paradisi fiscali”, di cui fa parte la Svizzera, i centri off-shore, di solito interamente controllati dalle autorità statunitensi, la cui  tecnica si basa sui “trusts”. Quest’ultimi, costosi da mettere in funzione, consentono una opacità fiscale molto più grande rispetto alla tecnica del segreto bancario.

La piazza elvetica detiene ancora il 27% del mercato off-shore, quello dei capitali posti al di fuori del loro paese d’origine. Essa, quindi, è il principale rivale dei centri finanziari anglo-sassoni. Gli attacchi contro gli svizzeri sono un modo per lottare contro il declino del dollaro, costringendo l’investimento dei capitali nell’area di questa moneta.

Il G20 di Londra (aprile 2009) ci mostrava tuttavia che la morsa degli Stati Uniti sul sistema finanziario internazionale è solo parziale. La piazza di Singapore, che è chiamata ad una crescita forte e in grado di recuperare una parte dei capitali che abbandonano la Svizzera, è riuscita a mantenere le sue prerogative contro l’offensiva degli Stati Uniti.

Jean-Claude Paye, sociologo, autore de La fine dello Stato di diritto. Manifestolibri.
Contributi pubblicati in Eurasia. Rivista di studi geopolitici:
Spazio aereo e giurisdizione statunitense (nr. 4/2007, pp. 109-113);
Gli scambi finanziari sotto controllo USA (nr. 1/2009, pp. 109-120).

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Sette basi militari USA in Colombia

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Fonte: Mondialisation.ca 25 settembre 2009 L’aut’journal.info

Un accordo che sta per essere concluso con la Colombia presto consentirà agli Stati Uniti di occupare sette basi militari nel paese (due terrestri, tre aeree e due navali), site in punti strategici. Così Laranda e Apiay sono nella parte meridionale e orientale della regione amazzonica, vicino al confine con il Brasile e il Venezuela; Palenquero e Tolemaida sono al centro del paese, Malambo e Cartagena sono al nord, sul mar dei Caraibi, mentre la base navale di Malaga si trova sull’Oceano Pacifico. L’accordo prevede che 600 militari e 800 contractors effettuino operazioni di intelligence agli ordini di un colombiano. Ma questo  personale è coperto da immunità diplomatica e, in caso di crisi, il suo numero sarà illimitato.

Il Presidente Uribe presenta l’accordo come un’iniziativa del suo paese per combattere il traffico della droga e il “terrorismo” delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC) mentre, denuncia la diplomazia brasiliana, egli non cessa di annunciare che la guerriglia è indebolita o quasi annientata. “O ha mentito su questo punto“, ha detto il giornalista Maurice Lemoine de Le Monde diplomatique, “o l’obiettivo USA-Colombia è molto più ampio; entrambe le ipotesi si completano a perfettamente“. In effetti, molte delle ragioni permettono di non credere al tandem Washington-Bogotà, quando afferma che i paesi confinanti non devono temere di avere una presenza militare statunitense vicina a essi. La ragione principale è che, sostenuta da quello che Lemoine chiama “maccartismo mediatico”, “gli Stati Uniti e la Colombia sono già al lavoro per stabilire chi è, nella regione, un terrorista e chi è un trafficante di droga“.

Senza preoccuparsi di alcuna prova seria, entrambi i paesi continuano ad accusare il presidente Chavez fi rifornire di armi i guerriglieri colombiani e di aprire la strada al traffico di droga in America Centrale. Accusano, inoltre, il presidente dell’Ecuador di aver accettato finanziamenti delle FARC per la sua campagna elettorale e di avere reso il suo paese un “santuario” per le stesse FARC. Queste menzogne, dice Lemoine, “screditano, ogni giorno un po’ più, i governi dell’ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe, formata tra gli altri da Cuba, Venezuela, Nicaragua, Ecuador e Bolivia), agli occhi dei ‘opinione pubblica internazionale’.” “Nel caso di un tentato colpo di stato, o di destabilizzazione, che li riguardassero, sarà molto più facile trasformare gli aggressori in vittime, per giustificare il rovesciamento di quei presidenti che disturbano.”

Sul quotidiano messicano La Jornada (14 agosto), l’influente giornalista uruguayano Raul Zibechi scrive che l’arrivo delle basi del Southern Command in Colombia, e il ripristino della Quarta Flotta USA lungo le coste dell’America Latina, mostrano “che è iniziata una nuova fase della battaglia per il controllo dell’America Latina”.Mutando il capitale produttivo in capitale finanziario, dalla metà degli anni 1970, ricorda Zibechi, il capitalismo ha abbandonato la produzione di massa, come l’asse di accumulazione del capitale ed è entrato in una nuova fase di accumulazione, dell’esproprio, che è sempre meno compatibile con la democrazia.” Africa e America Latina sono soggette ad una concorrenza agguerrita per la proprietà dei loro beni comuni, acqua dolce, biodiversità, minerali, combustibili fossili e terreni agricoli per produrre biocarburanti. In America Latina, i paesi più grandi (Argentina, Brasile, Venezuela) stabiliscono partnership economiche con i paesi asiatici ed altre potenze emergenti, in aggiunta alle transazioni in valuta diversa da quella statunitense. Per gli Stati Uniti, scrive Zibechi, bisogna affrontare “l’alleanza strategica tra Cina e Brasile, che esiste dal 1990, ben prima dell’arrivo al potere di Lula“. Ma venti anni fa, la Cina era solo il 12° partner commerciale in America Latina, con un fatturato di poco più di otto miliardi di dollari. 2007, si classifica al secondo posto con un valore di oltre 100 miliardi di dollari. Quest’anno, la Cina è diventata il principale partner commerciale del Brasile, prima degli Stati Uniti, e ha anche rafforzato i suoi legami con il Venezuela, Ecuador e Argentina. La recente offerta di 17 miliardi di dollari della compagnia petrolifera cinese, CNOOC, per acquisire l’84% delle argentina Repsol YPF, è il più grande investimento mai realizzato all’estero da parte della Cina.

Marcelo Gullo e Carlos Alberto Pereyra Mele esperti di geopolitica brasiliani, credono che il tempo della sola superpotenza mondiale è finita, e oggi gli Stati Uniti non hanno altra scelta che diventare una potenza regionale:

La crisi che questo paese attraversa, scrivono, è strutturale e non congiunturale, perché per la prima volta dal 1970, gli interessi della borghesia e del governo degli Stati Uniti sono divisi. Il passaggio della produzione verso l’Asia, ha lasciato il paese deindustrializzato, senza sufficiente lavoro da offrire e con 40 milioni di poveri“. Inoltre, Gullo dice: “Washington ha fallito nelle sue principali strategie, espellere Cina dall’Africa o impedire l’alleanza tra Russia e Europa occidentale.” Gli Stati Uniti devono quindi ripiegare sull’America Latina per farne la loro zona di influenza esclusiva. Ecco perché sono sbarcati in Colombia, che per loro ha una grande importanza geopolitica.

La Colombia ha coste su due oceani ed è confinante con il Venezuela, che fornisce agli Stati Uniti il 15% del loro petrolio, e con l’Ecuador, altro paese petrolifero, da due delle sue basi militari, Washington avrà accesso al più importante passaggio commerciali nel mondo, il Canale di Panama. Ma ha anche molte isole nei Caraibi e la foresta amazzonica occupa gran parte del suo territorio. Infine, il commercio di droga genera guadagni astronomici e chi controlla il paese, controlla anche questo commercio.

Per affrontare  l’Unione europea, la Cina e la Russia, anticipa Pereyra Mele, Washington deve ora “farla finita con il Brasile, che rappresenta il maggiore potenziale di resistenza della regione, che ha all’origine d’iniziative come l’integrazione regionale“. La strategia degli Stati Uniti è quella di ottenere “la resa della potenza nazionale del Brasile“, tracciando una cordone sanitario militarizzato attorno al Brasile, partendo dalla Colombia e, quindi, passando per la Bolivia e il Paraguay.

Entrambi gli esperti concordano sul fatto che “l’America Latina deve reagire rafforzando i suoi accordi regionali come il Mercosur e l’UNASUR, per evitare le divisioni e controllare le turbolenze interne (ad esempio il golpe in Honduras), che rendono possibile l’espansione militare statunitense nella regione.” “L’America Latina, afferma Pereyra Mele, deve difendere prioritariamente l’unità attorno ai suoi tre sistemi idrici più importanti (l’Orinoco, il Rio delle Amazzoni e il bacino del Guarani) e creare un complesso militare-industriale Argentino-Brasiliano, per migliorare le proprie capacità della difesa, senza dipendenze esterne. Ma la responsabilità primaria, davanti alle sfide da affrontare, incombe sul Brasile, perché è la potenza relativa della regione.”

Il problema, dice Gullo, è che la classe dirigente brasiliana non capisce bene che, per resistere all’aggressione degli Stati Uniti, abbiamo bisogno di partner forti, che ciò che conta non è l’industrializzazione isolata del Brasile, ma quella di tutta l’America del sud”.

Andre Maltais è un assiduo collaboratore di Mondialisation.ca.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Le forze armate statunitensi sulla strada della bancarotta

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Fonte: Bloc-Notes 23 Settembre 2009 http://www.dedefensa.org

Thompson, quando non è sollecitato oltre misura dai suoi legami con i suoi vari ingombranti sponsor del complesso militare-industriale, ci può dare interessanti informazioni e riflessioni su questi dettagli. L’ha fatto il 22 Settembre 2009, sul sito dell’Istituto Lexington, che co-dirige, a proposito della situazione delle forze armate statunitensi, riguardo al loro status di esercito professionale (“All Volunteer Force”).

Ciò che Thompson evidenzia, sono i costi straordinari di questo esercito a livello del personale. Un soldato dell’U. S. Army, al minimo, costa poco più di 100.000 dollari all’anno, presso il Dipartimento della Difesa, e ancora con certe altre spese nascoste, e questo è indicativo di una tendenza, in quanto vi è stato un aumento dei costi del 55%, negli ultimi dodici anni. Questa tendenza è rappresenta anche l’inflazione nell’equipaggiamento di protezione e delle turnazioni accelerate, l’appesantimento dei compiti istituzionali dei soldati, gli assetti sociali resi necessari dalle pressioni esterne, ecc. tutto i conformità al decadimento del sistema burocratico. (Esistono ancora molti “buchi neri” in questa situazione, che riflettono le inefficienze e gli sprechi della spesa. Il sistema ospedaliero e il trattamento dei disturbi psicologici causati dai combattimenti, sono in uno stato deplorevole, come molti scandali hanno dimostrato.)

Ho scritto un saggio su questo argomento, sul numero attuale dell’Armed Forces Journal. Si basa sul lavoro dell’analista del Congressional Research Service, Stephen Daggett, dell’ex capo contabile del Pentagono Dov Zakheim e di altri, per dipingere un quadro allarmante delle tendenze del personale della difesa. Sul valore costante del 2009 dei dollari, il costo medio di ogni combattente è aumentato del 45% negli ultimi dodici anni – da 55000 a 80000 dollari. Quando le crescenti spese sanitarie militari (fino al 150% in questo decennio) vengono addizionate a questa cifra base, il costo attuale di ogni combattente balza al di sopra dei 100000 dollari all’anno. E ciò prima che il costo dell’addestramento e dell’equipaggiamento dei combattenti per fare il loro lavoro, sia preso in considerazione! Quando l’insieme di tutti gli esborsi necessari per mettere in campo un soldato o aviatore tipo, viene calcolato, diventa evidente che l’All-Volunteer Force è astronomicamente, assurdamente, costosa.

“Uno dei motivi per cui i politici non sono riusciti a cogliere questa crisi incombente, è che il bilancio della difesa non è organizzato per conteggiare a pieno gli oneri del costo del personale. Ad esempio, il budget di riferimento per l’anno fiscale 2010 (non contando le spese di guerra annesse) calcola 136 miliardi di dollari per “il personale militare” – molto più dei 107 miliardi assegnati agli appalti pubblici, ma notevolmente inferiore ai 186 miliardi accantonati per le operazioni e la manutenzione (O&M). Ciò di cui molte persone non si rendono conto, tuttavia, è che oltre la metà del bilancio O&M è anch’essa connessa alle spese del personale, come ad esempio le spese per l’assistenza sanitaria ai militari e le paghe per i dipendenti civili delle forze armate. Il corso reale dell’aumento dei costi O&M nel bilancio ordinario della difesa non è dovuta “all’aumento delle operazioni”, come spesso si presume, all’aumento dei costi del personale.”

Thompson ritiene che questa sia una situazione insostenibile, alla lunga, per gli Stati Uniti, soprattutto se si impone un bilancio della difesa che non è più accettabile in relazione ai mezzi finanziari degli Stati Uniti, in tempo di crisi: “Da quando è iniziato il decennio in corso, l’economia americana è scesa da circa un terzo a un quarto della produzione mondiale. In altre parole, il 5% della popolazione mondiale sta generando il 25% della produzione globale, mentre cerca di sostenere il 50% della spesa militare. Questi numeri non tornano: le spese per la difesa dovranno essere più strettamente allineate alle risorse del bilancio, nei prossimi anni, e dovranno essere giustificate, altrimenti avremo la bancarotta del Tesoro e ci giocheremo il nostro futuro“.

Quale soluzione preconizza Thompson? Si trova la solita quadratura del cerchio del sistema USA. Non si tratta affatto di un ritorno alla coscrizione obbligatoria, perché – Thompson non l’ha detto, ma lo diciamo noi per lui – è troppo pericolosa per la politica di sicurezza nazionale di un sistema che inanella una guerra impopolare dopo l’altra, e gli Stati Uniti non vogliono subire contraccolpi a livello nazionale, come durante il disastro del Vietnam. Allora, che fare? Cosa? Ridurre i costi del personale. (“La risposta non è un ritorno alla leva obbligatoria, ma frenare l’aumento dei compiti a carico degli effettivi in servizio e smettere di sognare nuovi vantaggi militari come se fossero i nastrini delle campagne militari.”) Vale a dire, chiedere al Pentagono di ridurre le spese e spendere meglio …

Buona fortuna, Loren B.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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I mercenari cubani della Casa Bianca

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Fonte: http://www.voltairenet.org/article162148.html 27 settembre 2009

Salim Lamrani ha recentemente pubblicato “Cuba, quello che i media non vi diranno mai”, una raccolta di articoli scritti negli ultimi cinque anni. Esamina, sistematicamente, tutti gli argomenti utilizzati dalla propaganda statunitense per giustificare a posteriori l’embargo unilaterale imposto da Washington, in violazione del diritto internazionale. Questa panoramica fornisce una misura di quanto i critici del governo rivoluzionario siano irreali. Un’appendice storica sottolinea anche la continuità dell’atteggiamento dei successivi governi degli Stati Uniti, indipendentemente  dall’alternarsi di facciata tra democratici e repubblicani.

Ci dispiace la mancanza di un indice che avrebbe permesso di usare questo libro come una enciclopedia, in ogni caso la completezza e l’accuratezza della sua tesi lo rendono un libro di riferimento per tutti coloro che desiderano esplorare questo tema.

Riportiamo qui un estratto sui dissidenti più famosi, messi in scena dalla Casa Bianca.

Conferenza stampa dei dissidenti a Cuba, presso la residenza dell’incaricato d’affari degli Stati Uniti a L’Avana. (Da sinistra a destra: Manzano, Bonne, Roque e Roca).

L’opposizione cubana dispone di uno status speciale. Da un lato, è molto apprezzata dalla stampa occidentale. Infatti, nessun gruppo di dissidenti in America Latina, tranne forse l’opposizione venezuelana, gode di tale aura mediatica. Dall’altra parte, essa riceve  finanziamenti enormi dagli Stati Uniti, di cui i media tacciono, e gode di una libertà d’azione che scandalizzerebbe i pubblici ministeri di tutto il mondo.

Il 21 giugno 2007, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha deciso di votare un bilancio di 45,7 milioni di dollari per il 2007-2008, presentato dal presidente Bush, destinato ai dissidenti cubani. Così, 254 delegati, di cui 66 Democratici, hanno sostenuto la strategia della Casa Bianca, volta a rovesciare il governo cubano. Il legislatore della Florida, Lincoln Diaz-Balart, un diretto discendente dell’ex dittatore Fulgencio Batista, ha accolto con favore tale aiuto. “Questa vittoria costituisce un sostegno all’opposizione politica interna” Cubana, ha detto. “L’assistenza ai dissidenti non è simbolica, ma concreta”, ha aggiunto. Ha anche pubblicato una lettera da parte di alcuni importanti dissidenti cubani, che sostengono che gli aiuti degli Stati Uniti sono “vitali per la sopravvivenza di attivisti [1]”.

Per il periodo 2007-2008, l’Assemblea ha inoltre assegnato una somma di 33,5 milioni di dollari (6 milioni in più rispetto al 2006) a Radio e TV Martí. Questi due media statunitensi trasmettono illegalmente messaggi sovversivi nei confronti di Cuba, al fine di incitare la gente a rovesciare l’ordine costituito [2].

Quello stesso giorno, 21 giugno 2007, il capo della diplomazia degli Stati Uniti a L’Avana, Michael Parmly, ha ricevuto in pompa magna i celebri dissidenti René Gómez Manzano, Félix Bonne, Martha Beatriz Roque e Vladimiro Roca, nella sua sontuosa residenza personale. Questi ultimi erano venuti a ringraziare il loro apprezzato mecenate, per la sua generosità [3].

I media occidentali, pure così prolifici per quanto riguarda Cuba, sono rimasti stranamente in silenzio su questi due eventi. Le ragioni sono relativamente semplici. I personaggi che si sforzano di presentare da anni come attivisti coraggiosi, in cerca di democrazia, sono in realtà dei volgari mercenari che si vendono al miglior offerente. Il termine mercenario non è una parola fuori luogo o esagerata. Secondo il Littré, si tratta di coloro “che lavorano per soldi, di chi fa tutto ciò che desidera per soldi”[4]. Manzano, Good, Roque e Roca rientrano pienamente in questa definizione.

Eppure non vi è nulla di nuovo in tutto questo. Da  decenni gli Stati Uniti cercano, con ogni mezzo, di creare e dirigere un’opposizione interna a Cuba, per liquidare il processo rivoluzionario cubano. Gli archivi americani sono eloquenti a questo proposito. Inoltre, molti documenti americani, ufficiali e pubblici, attestano una realtà che nessun analista politico e giornalista degno di questo nome può ignorare. La Legge Torricelli del 1992, in particolare il paragrafo 1705, afferma che “gli Stati Uniti forniranno assistenza alle organizzazioni non governative, per sostenere gli individui e le organizzazioni che promuovono un cambiamento democratico non violento a Cuba” [5]. La legge Helms-Burton del 1996 prevede, nell’articolo 109, che “Il presidente [Usa] è autorizzato a fornire assistenza e offrire sostegno alle persone e alle organizzazioni non governative indipendenti, per sostenere gli sforzi per costruire la democrazia a Cuba [6]”.

La prima relazione della Commissione di Aiuto ad una Cuba Libera, approvata il 6 Maggio 2004, prevede l’istituzione di un programma di “un solido programma di supporto alla promozione della società civile cubana“. Tra le misure raccomandate, un finanziamento pari a 36 milioni di dollari, destinato a “sostenere l’opposizione democratica e il rafforzamento della società civile emergente [7].” La seconda relazione della stessa Commissione, pubblicata il 10 luglio 2006, fornisce anche un bilancio di 31 milioni di dollari per finanziare soprattutto l’opposizione interna [8].

Nel 2003, la giustizia cubana aveva condannato 75 persone, stipendiate dagli Stati Uniti, suscitando la condanna dei media internazionali. In qualsiasi altro paese al mondo, persone come Manzano, Good, Roque Roque, oggi si troverebbero dietro le sbarre [9]. Ricardo Alarcón, presidente della Assemblea Nazionale cubana ha messo in guardia i membri della “dissidenza“, dicendo che coloro che cospirano con Washington e accettano i suoi emolumenti dovranno “pagarne le conseguenze [10].”

Finché questa politica esisterà, ci saranno persone che si troveranno coinvolte […]. Esse cospireranno con l’America del Nord [e] ne accetteranno il denaro. Questo è un crimine secondo il diritto cubano. Io non conosco alcun paese che non qualifichi tale attività come un crimine“, ha sottolineato Alarcón. “Immaginate che qualcuno negli Stati Uniti sia sostenuto, addestrato, equipaggiato e consigliata do un governo straniero. Questo è un crimine in sé. Si tratta di un reato molto grave negli Stati Uniti, e che può costare molti anni di prigione, molto più di quanto si possa rischiare qui a Cuba“, ha concluso [11].

È lo stesso in Francia, come prevede l’articolo 411-4 del codice penale, e un caso che si è verificato nel 2004, illustra in modo eloquente questa realtà. Il 28 Dicembre 2004, le autorità francesi hanno arrestato Philippe Brett e Philippe Evanno, due dipendenti del signor Julia. Avevano dato origine a un tentativo fallito per liberare i due ostaggi francesi in Iraq, Christian Chesnot e Georges Malbrunot, nel settembre 2004. Queste due persone sono state accusate di “intelligenza con una potenza straniera, tale da compromettere gli interessi fondamentali della nazione“. Essi sono stati presentati ai giudici della lotta contro il terrorismo Jean-Louis Bruguiere e Marie-Antoinette Houyvet, che si occupano dei casi legati alla sicurezza dello Stato. Erano stati accusati di aver preso contatto con la resistenza irachena e di aver ricevuto assistenza logistica dalla Costa d’Avorio. Brett e Evanno erano passibili di dieci anni di carcere e di 150000 euro di multa. Il signor Julia è sfuggito alla giustizia attraverso la sua immunità parlamentare. La gravità delle accuse contro di loro non hanno suscitato alcuna emozione nella stampa occidentale [12].

La relazione del 2006 prevede anche 24 milioni di dollari aggiuntivi per Radio e TV Martí, per amplificarne la trasmissione dei programmi sovversivi a Cuba, in violazione del diritto internazionale. I membri della “dissidenza” cubana dispongono di parte di questo denaro, per acquistare e distribuire apparecchi radiofonici e televisivi per ricevere i programmi trasmessi dagli Stati Uniti. Altri paesi sono invitati a trasmissioni sovversive verso Cuba. La relazione prevede inoltre “la formazione e l’equipaggiamento di giornalisti indipendenti nella stampa, radio e televisione, a Cuba [13]”.

La stampa occidentale ha censurato questa realtà, aveva bollato le azioni delle autorità cubane, denunciando le sanzioni contro “gli attivisti pacifici e i giornalisti indipendenti”. Secondo essa gli imputati sono stati puniti per aver apertamente espresso il loro disaccordo con la linea ufficiale e di aver pubblicato articoli diffamatori sulla stampa di estrema destra di Miami [14].

Soffermiamoci un attimo su queste accuse. I due cubani “dissidenti” che dispongono dell’influenza mediatica più grande a livello internazionale, che lanciano le invettive più aspre contro la Rivoluzione cubana e che godono del sostegno più marcato degli estremisti di origine cubana di Miami, sono Oswaldo Paya e Elizardo Sánchez [15]. Contro di loro, Raúl Rivero passa per un oppositore relativamente moderato e timido [16]. Ma era stato condannato a vent’anni di reclusione. Payá Sánchez non hanno avuto problemi con la legge, mentre i loro scritti politici sono molto più virulento di quelli di Rivero. La spiegazione è abbastanza semplice: Payá e Sánchez hanno finora rifiutato il finanziamento generosamente fornito da Washington, mentre Rivero ha commesso l’errore di approfittare della generosità della amministrazione Bush. E per questo motivo che è stato condannato, non per una produzione letteraria o politica presunte eterodosse.

Integrarsi nel mondo del “dissenso” è un mestiere redditizio. I benefici economici di questa professione sono coerenti e attizzano l’avidità di individui senza scrupoli. Le 75 persone condannate non esercitavano alcun lavoro e vivevano sugli emolumenti offerti da parte delle autorità degli Stati Uniti, in cambio del lavoro svolto. Gli stipendi notevoli, per il livello di vita della società cubana, hanno portato alcune persone ad accumulare fortune personali di discrete dimensioni, per un importo di 16000 dollari in contanti, mentre il salario medio è tra i quindici e i venti dollari al mese [17]. Conducevano così uno stile di vita ben superiore a quello dei cubani, e inoltre  beneficiavano pure dei privilegi senza precedenti forniti dal sistema sociale cubano.

Per valutare correttamente l’importanza di una tale somma, ci si deve richiamare al valore dollaro a Cuba. Con l’equivalente di un dollaro, un cubano può permettersi di comprare centoquattro litri di latte, quarantacinque chili di riso, ventisei biglietti per le partite di baseball, tra cinque e ventisei posti in teatro o al cinema, 5200 kilowatt di energia elettrica o cinque corsi televisivi d’inglese, di centosessanta ore ciascuno. Tutti gli altri prodotti alimentari di base (pane, fagioli, olio) sono nello stesso ordine di prezzi. A ciò si aggiungano i servizi educativi e sanitari gratuiti. Dato che l’85% dei cubani è proprietario dei loro alloggi, non pagano affitto. Inoltre, l’imposta non esiste a Cuba. Altra cosa unica al mondo: le medicine acquistate nelle farmacie oggi, costano due volte meno di quelle che venivano acquistate cinquanta anni fa [18]. Tutti ciò è possibile grazie alle sovvenzioni concesse annualmente dallo Stato cubano, così diffamato dai dissidenti stessi che non mancano di approfittare delle favorevoli condizioni di vita offerte dalla società cubana.

Dopo l’intervento diplomatico della Spagna, diversi detenuti dal marzo 2003, compresi Raúl Rivero, sono stati liberati alla fine del novembre 2004, per motivi umanitari [19]. Va notato che Rivero ha beneficiato della mediatizzazione internazionale solo perché era con Oscar Elias Biscet, l’unica persona in carcere su 75 che ha effettivamente lavorato come giornalista. Il suo caso è interessante in quanto mette in luce la portata della campagna di disinformazione lanciata contro Cuba. In un’intervista con Reporters Sans Frontières, Blanca Reyes, moglie di Rivero, ha detto che era in “disumane e inaccettabili condizioni di detenzione“. Ha aggiunto, nella stessa occasione, che aveva perso quaranta 19,5 kg di peso. “[E’] affamato. Voglio fare sapere alla gente [che] Raúl Rivero soffre la fame“, ha lamentato in un impeto melodrammatico di circostanza [20]. Questa informazione è stata ripresa in grande pompa da tutta la stampa internazionale.

Tuttavia, una volta liberato dal carcere, Rivero è apparso in ottima salute, con un sovrappeso significativo, come illustra la foto ripresa dalla stampa e come non hanno mai cessato di proclamare le autorità cubane [21]. Mentre Washington e i suoi relè denunciato con notevole copertura mediatica le “condizioni di vita terribili” dei detenuti, Rivero stesso ha confessato di aver avuto libero accesso alla lettura e con entusiasmo ha divorato l’ultimo romanzo dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez, Historias de mis putas tristes, un’opera difficile da trovare nelle librerie francesi, al momento [22]. Rivero non ha vissuto in un albergo a quattro stelle, certo, ma non in un gulag “tropicale“, come alle anime belle piace chiamare le prigioni cubane, come se i penitenziari del resto del mondo siano dei resort [23].

Senza dubbio, la prigione di Abu Ghraib in Iraq, dove la tortura di prigionieri di guerra è stata istituzionalizzata da Washington, sono più comode. Che dire delle celle di Guantanamo, zona senza legge dove la tortura applicata ai prigionieri è tale che molti tentativi di suicidio si sono verificati presso persone assai devote, nonostante il fatto che porre fine alla propria vita sia il peccato peggiore [24]? In ogni caso, pochissimi reclusi possono vantare di avere accesso all’ultimo romanzo di García Márquez, prima ancora di qualche libreria specializzata europea.

Armando Valladares, ex-poeta ed ex-paralitico, è ora anche ex-presidente della Human Rights Foundation, da cui si è dimesso per sostener i golpisti honduregni.

La storia di Armando Valladares, il poeta “paralitico condannato per reati di opinione“, secondo la propaganda di Washington, è istruttiva. Arrestato nel 1960 per terrorismo, questo ex poliziotto della dittatura di Batista, ricevette il sostegno di una vasta campagna internazionale lanciata dall’estrema destra cubana della Florida, negli anni ’80. Dopo le trattative condotte dal governo francese di François Mitterrand, sotto gli auspici di Regis Debray, il prigioniero è stato liberato e ha perso, al tempo stesso, il suo talento sia di poeta che la sua emiplegia. Al contrario, ha conservati con cura le sue doti di attore e, dopo aver ottenuto la cittadinanza americana, si arruolò nel governo di Ronald Reagan, diventando ambasciatore alle Nazioni Unite. Seccato, Regis Debray ha scritto nel suo libro Les Masques: “l’uomo non era un poeta, il poeta non era paralizzato e adesso il cubano è un americano [25].”

Luis Ortega Sierra è un giornalista cubano, che andò in esilio negli Stati Uniti nel 1959, al trionfo della Rivoluzione. Si tratta di un fiero oppositore del governo di L’Avana, come illustrato dai suoi scritti. Era legato all’ex dittatore cubano Fulgencio Batista, che finanziava le sue attività. In una lettera del 22 settembre 1961 all’ex uomo forte di Cuba, Ortega aveva espresso la sua “simpatia” e “ammirazione” per lui [26].

A proposito di dissidenti cubani, Ortega ha detto la cosa seguente:

“I dissidenti a Cuba sono persone senza importanza politica, e tutti sono d’accordo, anche quelli che vivono a loro spese. Sono dei burattini della mafia di Miami. Sono al servizio della Sezione d’Interessi degli Stati Uniti che li sballotta da un posto all’altro […]. Si tratta di persone che ricevono uno stipendio e l’orientamento ideologico dal governo americano. Non è un segreto per nessuno. È il governo degli Stati Uniti che concede il denaro per finanziare le attività di questi signori sull’isola. Pensare che questo elemento possa essere un potente movimento di opposizione al governo, è un errore [27].”

Se l’Iran o la Cina finanziassero i dissidenti negli Stati Uniti, Regno Unito o Francia, questi ultimi cadrebbero immediatamente sotto i colpi della legge. Se i media occidentali fossero intellettualmente liberi, userebbero solo un unico termine per riferirsi a coloro che si presentano come oppositori del governo cubano: mercenari.

Salim Lamrani

Insegnante, docente presso l’Università Paris Descartes e Paris-Est Marne-la-Vallee. Ultimo libro pubblicato: Cuba. Ce Que les Medias Ne Vous Diront Jamais , Estrella (2009).

Questo articolo è estratto da Cuba. Ce que les médias ne vous diront jamais.

Prologo di Nelson Mandela. Paris, Editions Estrella, 2009 (300 pagine, 18 €)

Per ordinare, si prega di contattare l’autore: lamranisalim@yahoo.fr

Note

[1] Wilfredo Cancio Isla, «La Cámara da sólido apoyo a la democracia en Cuba», El Nuevo Herald, 22 giugno 2007.

[2] Ibid.

[3] Andrea Rodriguez, «Disidentes cubanos usan casa de diplomático de EEUU», The Associated Press, 21 giugno 2007.

[4] Le Littré, V. 1.3.

[5] Cuban Democracy Act, Titre XVII, Section 1705, 1992.

[6] Helms-Burton Act, Titre I, Section 109, 1996.

[7] Colin L. Powell, Commission for Assistance to a Free Cuba, (Washington: United States Department of State, maggio 2004) pp. 16, 22.

[8] Condolezza Rice & Carlos Gutierrez, Commission for Assistance to a Free Cuba, (Washington: United States Department of State, luglio 2006), p. 20.

[9] Salim Lamrani, Fidel Castro, Cuba et les Etats-Unis (Pantin: Le Temps des Cerises, 2006).

[10] BBC, «Cuba Warns Dissidents Over US Aid», 12 luglio 2006.

[11] Ibidem.

[12] Salim Lamrani, Fidel Castro, Cuba et les Etats-Unis, op. cit.

[13] Condolezza Rice & Carlos Gutierrez, op cit., p. 22.

[14] Reporters sans frontières, “Un anno dopo l’arresto di 75 dissidenti, Reporters sans frontières mobilita l’Europa contro la repressione a Cuba“, 18 marzo 2004.

[15] Oswaldo Paya, «Mensaje de Oswaldo Paya Sardiñas a Vaclav Havel, Presidente de la República checa en su visita a la ciudad de Miami, Florida», 7 ottobre 2004.

[16] Raúl Rivero, «El cartel del queso blanco», Luz Cubana, gennaio/febbraio 2003, n. 1: 9-10.

[ 17 ] Felipe Pérez Roque, «Conferencia a la prensa nacional y extranjera», MINREX, 25 marzo 2004 : 5-7.

[18] Governo Rivoluzionario di Cuba, “Documenti“, Aprile 18, 2003. (sito consultato il 2 dicembre 2004).

[19] Andrea Rodríguez, «En libertad el poeta y disidente cubano Raúl Rivero», El Nuevo Herald, 30 novembre 2004.

[20] Reporters sans frontières, «La mujer del periodista encarcelado Raúl Rivero denuncia unas condiciones de detención ‘inaceptables’», 5 agosto 2003.

[21] Nancy San Martin, «Cubans Tell Rivero to Consider Leaving», The Miami Herald, 1 dicembre 2004.

[22] Wilfredo Cancio Isla, «Un símbolo en libertad», El Nuevo Herald, 1 dicembre 2004.

[23] Olivier Languepin, «Dans les prisons de Castro», Le Monde, 31 dicembre 2004.

[24] Robert Scheer, «A Devil’s Island for Our Times», Los Angeles Times, 28 dicembre 2004.

[ 25 ] Gianni Miná, Un Encuentro con Fidel (La Havana: Oficina de Publicaciones del Consejo de Estado, 1987), pp. 43-60; Jean-Marc Pillas, Nos Agents à La Havane. Comment les Cubains ont ridiculisé la CIA (Paris: Albin Michel, 1995), pp. 145-51.

[26] Ivette Leyva Martínez, «Despierta singular interés vida y obra de Batista», El Nuevo Herald, 3 maggio 2008.

[27] Luis Ortega Sierra, «Fidel rebasó la historia», in Luis Báez, Los que se fueron (La Havana: Casa Editora Abril, 2008), p. 221.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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IEMASVO: iniziano i corsi di lingua araba

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Istituto Enrico Mattei di Alti Studi sul Vicino e Medio Oriente
I.E.M.A.S.V.O – Via di Grottarossa 55, 00189 Roma

Riconosciuto ai sensi del D.P.R. 361/2000
Iscrizione Registro Prefettura di Roma n. 589/2008

Mercoledì 30 settembre alle ore 18,30, in via Due Macelli 47 (Piazza di Spagna) si svolgerà l’incontro di quanti sono interessati ai nostri corsi di lingua araba con la docente di arabo (madrelingua araba, perfetta conoscenza di italiano, ampia esperienza di docenza). La riunione servirà a verificare le potenzialità e le aspettative dichi si vuole iscrivere – secondo i corsi previsti: principianti, arabo parlato e lettura di siti e giornali arabi: vedi più sotto  – in modo da poter organizzare al meglio l’attività didattica, in vista anche del conseguimento del diploma o attestato finale. Per maggiori informazioni scriveteci un email, oppure telefonate al 377 1520283 o allo 06 332766662

PS. Ai fini di una buona riuscita dell’incontro, ci è utile conoscere preventivamente il vostro curriculum e la vostra attività.

I CORSI DI LINGUA ARABA

Per principianti
I° LIVELLO
100 ore, 550 € in due rate da € 350 e € 200

Inizio: 15 Ottobre 2009
Scadenza iscrizioni: 8 Ottobre 2009
Durata: 67 incontri di 90 minuti cadauno, fino a marzo 2010
Cadenza: 3 incontri settimanali, martedì, giovedì (18-19,30) e sabato mattina
Classe: minimo 7 studenti, massimo 15
Diploma o attestato finale


Per giornalisti e operatori della comunicazione
con una base di conoscenza della lingua araba
LEGGERE LA STAMPA E I SITI ARABI
50 ore, 350 € in due rate da 200 e 150 €

Inizio: 9 Ottobre 2009

Scadenza iscrizioni: 5 ottobre 2009
Durata: 34 incontri di 90 minuti cadauno, diploma o attestato di frequenza
Cadenza: 2 incontri settimanali in giorni da stabilire
Classe: minimo 4 studenti, massimo 10

Per fare pratica di conversazione
PARLARE L’ARABO
Monte ore variabile (si consigliano 50 ore a 350 €),
lezioni individuali o in piccoli gruppi,
argomenti di conversazione personalizzati

Inizio: 9 Ottobre 2009

Scadenza iscrizioni: 5 ottobre 2009

Per maggiori informazioni:
info@mastermatteimedioriente.it
iemasvo@tiscali.it
tel. +39- 377-1520.283; tel. e fax +39-06-33266662
Via di Grottarossa 55 – 00189 Roma

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Dove va il mondo?

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La maggiore intelligibilità dei grandi rivolgimenti geopolitici che si stanno dipanando sotto i nostri occhi, oltre il loro impatto di “superficie”, passa dalla calibrazione di opportuni strumenti di osservazione e di interpretazione della fase storica, grazie ai quali saremo in grado di leggere, con meno incertezza, il dipanarsi degli eventi davanti a noi.

In questo momento l’analisi teorica e la ricerca scientifica devono essere ben puntate su quella sfera sociale nella quale i cambiamenti stanno originandosi. È in quest’ultima che “precipitano” quegli avvenimenti dirompenti che, a breve, potrebbero trasfigurare la morfologia dell’intero mondo capitalistico rendendolo irriconoscibile al vecchio sguardo.

Il motore della storia si è rimesso in moto nella sfera politica ed è da essa che oggi si diramano gli impulsi trasformativi che poi si estendono via via a tutti gli altri ambiti sociali.

In una frase di V. Putin, pronunciata nel 2000, con riferimento alla situazione del suo Paese, ma che va estesa ad ogni singola formazione sociale, viene chiarito più che mai il quadro sociale generale: “la chiave della rinascita e del rinnovamento della Russia si trova nella sfera [geo]politica”.

La partita si gioca a questo livello, cioè al livello del conflitto mondiale per gli spazi di “sopravvivenza” e di “sicurezza” che sta accelerando il processo di dissolvimento dei precedenti equilibri sistemici. Abbiamo già descritto questa fase come passaggio dall’unipolarismo, caratterizzato dall’assoluto predominio statunitense, al multipolarismo, contrassegnato dal recupero in potenza di alcuni paesi che si accreditano quali possibili concorrenti degli Usa, fino al prossimo policentrismo che sarà contraddistinto dallo scontro aperto per la dominanza tra aree e blocchi di paesi in crescente competizione.

Dal punto di vista ideologico, il conflitto per la supremazia assume le sembianze di uno scontro di civiltà, ma sotto questa percezione “etica” e culturale si cela una ben più pregnante alterazione sociale attinente al passaggio tra la cosiddetta formazione capitalistica dei funzionari del capitale di matrice americana ad un’altra tipologia riproduttiva, sulla quale ancora poco si può dire sennonché  anch’essa si baserà sullo sviluppo dell’impresa e del mercato, combinate però con un maggiore decisionismo politico (secondo il modello russo e cinese).

Stando così le cose, si coglie maggiormente la portata della posta in palio nella disputa strategica che si è aperta lungo le direttrici degli approvvigionamenti e della distribuzione delle materie prime e delle risorse energetiche. Nelle zone dove queste sono concentrate, l’instabilità arriva al parossismo scoprendo i punti nevralgici e gli snodi conflittuali che favoriranno lo sbilanciamento dei rapporti di forza tra le potenze, fino a tracciare distintamente i confini di quel teatro geopolitico dove lo scontro policentrico potrà portare finalmente in scena la trasformazione del mondo.

Nulla a che vedere, dunque, con quella dettatura “a tavolino” delle regole d’aggiustamento sistemico auspicate dai principali attori internazionali di fronte alla crisi (che è tanto economica che politica), quale base per un diverso sistema di governance internazionale. Quest’ultimo, nei fatti, sta già nascendo, indipendentemente dalla loro volontà, essendo il prodotto di quel conflitto strategico interdominanti che va lentamente spostando il centro del predominio mondiale dagli Usa verso altre formazioni.

E non è casuale che i grandi paesi protagonisti dell’assalto al cielo si stiano preparando anche militarmente alla nuova situazione. La recente dottrina di sicurezza russa – pubblicata nel maggio 2009 – definisce apertamente la corsa per il controllo delle fonti energetiche quale elemento cruciale per la solidificazione di differenti assetti di potere ed individua nelle zone del Caspio e dell’Asia centrale quelle prossimamente coinvolte nella più intensa instabilità geopolitica.

L’ultima concezione strategica della NATO, per gli stessi motivi, ha integrato la variabile energetica tra i fattori strategici principali della fase a venire, tanto da orientarsi alla massima securitizzazione degli spazi dell’area post-sovietica attraverso l’allargamento della NATO e l’impianto di basi militari nei paesi dell’estero prossimo russo. Benché Obama abbia annunciato di voler rinunciare allo scudo antimissile in Polonia e Repubblica Ceca,  ciò non significa che vi è un generale arretramento dell’aggressività statunitense nei confronti di Mosca. Esistono tante altre strade per ottenere gli stessi risultati con meno dispendio di forze militari ed economiche.

Ma i russi sembrano al momento in vantaggio sul versante della politica energetica, come elemento per veicolare interessi geopolitici, e non accennano ad abbassare la guardia sulle aree strategiche di loro pertinenza, come ribadito dal presidente dell’Accademia delle scienze militari di Mosca, generale Gareev: “Les facteurs…énergétiques constitueront, dans les dix ou quinze prochaines années, la principale cause des conflits politiques et militaires. La lutte pour les ressources sera portée à son paroxysme, générant une confrontation politique et économique. On ne peut exclure, sur ce terrain, la possibilité d’une confrontation militaire” .

Per queste ragioni, gli statunitensi puntano ad isolare Mosca dal resto del mondo e, soprattutto, dai paesi europei che possono diventare una sponda efficace per tali programmi. Il Cremlino, attraverso gli accordi bilaterali (ed è l’unica maniera per aggirare le burocrazie dell’UE completamente schiacciate sulla partnership con gli Usa) con paesi come l’Italia, la Germania, ed ora anche la Francia, sta ottenendo buoni risultati, almeno in materia di energia. Si tratterà col tempo di convertire il potenziale accumulato per via economica in strategia politica comune, e nel comune interesse di tutti i partner i quali dovranno far fronte alla crescente ostilità degli Usa che si inasprirà in conseguenza della loro debolezza e della loro impossibilità a dominare un’architettura mondiale non più corrispondente ai reali rapporti di forza tra le nazioni.

Il vecchio ordine, a dominanza statunitense, ha dimostrato di non poter ancora reggere per molto, ma gli Usa non vogliono rinunciare (com’è ovvio che sia) alla costruzione geopolitica che li ha proiettati alla testa del pianeta per più di mezzo secolo (compresa la parentesi della condivisione del globo con l’URSS). E’ questo il dato principale che farà del mondo un posto sempre meno sicuro.


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