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Channel: Repubblica della Abkhazia – Pagina 342 – eurasia-rivista.org
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Significato della parata del 1 ottobre in Cina

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In Cina, giovedì 1 ottobre 2009 si festeggerà il 60° Anniversario della Fondazione della Repubblica popolare cinese e, a seguire, sabato 3 ottobre 2009 si festeggerà la Festa di Mezzo Autunno. In questo periodo si assisterà a un vero e proprio esodo interno dei lavoratori, che approfitteranno del periodo di ferie per far ritorno alle proprie abitazioni: ovviamente tutte le attività lavorative si fermeranno. I festeggiamenti per la fondazione della repubblica coinvolgeranno tutte le province cinesi, si svolgeranno anche a Hong Kong e si sa già che saranno grandiosi, soprattutto a Pechino, dove si sta preparando un’enorme parata militare, che coinvolgerà migliaia e migliaia di persone in Piazza Tian’anmen.

Uno dei capisaldi della cerimonia del primo ottobre sarà lo sfondo costituito dai “56 pilastri dell’unità etnica” per ribadire la centralità del concetto di patria e la vocazione imperiale cinese, inoltre molte persone stanno sistemando fiori ed espongono la bandiera nazionale nelle vie e nei quartieri per contribuire alle decorazioni e festeggiare l’evento.

L’impiego di mezzi e risorse finanziarie per preparare la celebrazione è tale che i serissimi commissari della Cultura in Cina non hanno esitato a ingaggiare gli attori Jackie Chan e il suo erede Jet Lie, per la produzione di un film epico sulla rivoluzione maoista per attirare, grazie all’impiego di grandi star conosciute anche all’estero, i giovani cinesi, che difficilmente si avvicinano ai film della “propaganda” governativa. Il film dal titolo “Jian Guo Da Ye” o “La fondazione di una Repubblica“, è già nelle sale ed è il film più importante girato per il Sessantesimo anniversario della Repubblica popolare cinese, che cade il primo ottobre.

Ma la più attesa e grandiosa celebrazione a Piazza Tian’anmen resta la cerimonia della parata militare. La parata mostrerà principalmente lo sviluppo e i cambiamenti della forza militare cinese, facendo sfilare, in maniera volutamente parallela alla grande parata di Mosca del 9 maggio, resuscitata e riportata alla magnificenza per volontà di Putin, sia i corpi militari “storici” sia gli ultimi ritrovati della tecnologia militare cinese.

Il richiamo alla parata russa per l’anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica non è casuale, ma intende sottolineare come il destino dei due polmoni eurasiatici è indissolubilmente legato dall’appartenenza allo stesso continente e, al di là di divergenze contingenti, dalla necessità di dover fare fronte contro le minacce comuni. Perciò sarà seguita molto da vicino dai giornalisti e dai responsabili militari delle altre nazioni.

Lo spiegamento di mezzi sarà senza precedenti. Secondo quanto illustrato dalle autorità militari, alla parata parteciperanno dodici plotoni di fanteria di cui sei saranno in assetto da guerra, reduci da diverse operazioni militari, di cui molti dei componenti sono decorati con onorificenze.

Durante la parata, la squadra dell’aeronautica militare volerà nello spazio di cielo sovrastante, abbellendo la scena sopra Piazza Tian’anmen. Secondo quanto illustrato, nel reparto dell’aeronautica militare, c’è la squadra “Bayi”, che è l’unica squadra ad eseguire numeri acrobatici volanti per gli ospiti stranieri. Questa squadra ha ricevuto 589 delegazioni provenienti da 138 paesi e regioni, partecipando a 335 rappresentazioni, inoltre ha scortato per 10 volte gli aerei speciale presidenziali o dei capo di stato stranieri mantenendo un tasso di sicurezza del 100%.

Parallelamente ai preparativi per la celebrazione, inevitabilmente, è partita anche la macchina della propaganda occidentale anti-cinese, che grazie all’aiuto di ONG, di varie “organizzazioni per i diritti umani” e di media filoatlantici, hanno intensificato gli sforzi per sabotare le celebrazioni, come già avvenuto in occasione delle Olimpiadi di Pechino.

I media anticinesi puntano il dito sulle eccezionali misure di sicurezza dispiegate per la parata, che vengono presentate come un inasprimento dell’oppressione del regime e su alcuni episodi isolati di cronaca con protagonisti immigrati o appartenenti a minoranze etniche della Cina, per evidenziare l’intolleranza e la brutalità della polizia e quindi la presunta natura razzista e discriminatoria dei cinesi (legittimando così le velleità indipendentiste di tibetani e uiguri) mentre invece la legislazione cinese concede massima autonomia sul piano culturale e religioso alle minoranze, nel rispetto dell’autorità centrale dello Stato.

Lo scopo della parata sarà quindi quello di mostrare al mondo l’attuale ottima condizione delle forze militari cinesi, ma anche quello di dare una compatta e risoluta risposta ai tentativi di disgregazione (Turkestan, Tibet) posti in essere dagli occidentali.

La Cina vuole dimostrare di marciare nella stessa direzione della Russia e delle altre potenze eurasiatiche verso il mondo multipolare e non accetta interferenze all’interno del suo spazio geopolitico.

Antonio Grego, dottore in Scienze politiche, in Eurasia. Rivista di studi politici ha pubblicato il saggio: L’immigrazione romena in Italia e reti transnazionali europee (nr. 4/2006, pp. 101-114).

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Lo scontro di civiltà e il Premio Mondello. Erofeev e l’ideologia russofoba

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Sig. Tiberio Graziani,

Direttore di Eurasia. Rivista di Studi geopolitici

Caro Sig. Graziani:

Abbiamo appreso con grande rammarico la notizia che il 5 maggio 2009 il cittadino russo Victor V. Erofeev, che si presenta come uno ‘scrittore russo’ abbia vinto il premio letterario ‘Mondello’ per il libro ‘Il buon Stalin’(2004), e che un testo praticamente sconosciuto in Russia sia stato riconosciuto – evidentemente per negligenza – come il miglior ‘romanzo’ dell’anno in Italia.

E’ triste che individui culturalmente minorati provenienti dalla Russia e Europei non informati, cadano vittime di una tale provocazione, poiché l’autore di cui sopra non può in nessun modo essere considerato uno scrittore, né tantomeno uno scrittore RUSSO.

L’inevitabile conclusione alla quale siamo giunti dopo una buona conoscenza del libro ‘L’enciclopedia dell’anima russa’ (2006 in Italia), è che tale libro può essere descritto solo come una poltiglia russofobica, immorale ed antisociale, volta a generare un odio generalizzato in Russia. Chiaramente questa scrittura è figlia di una devianza mentale, di immaginazione iperattiva e di una visione distorta e senza speranze. Ci sorprende che questo oltraggioso odio bestiale per tutte le cose russe, per la Russia e per l’umanità in genere, possa vedere la luce nella nostra epoca. Il linguaggio con cui ‘L’enciclopedia’ è scritta, puzza di graffiti illetterati e offensivi lasciati sui muri dagli hooligans. Alcune citazioni di seguito dovrebbero illustrare a sufficienza la questione.

Per esempio, la parte di testo intitolata ‘La Domenica di Sangue’ recita:

I russi dovrebbero essere bastonati.

I russi dovrebbero essere ammazzati.

I russi dovrebbero essere murati.

Altrimenti non sarebbero più russi.

La Domenica di Sangue è festa nazionale’

La parte del testo intitolata ‘La Piazza Rossa’ – il posto favorito e dai russi e dai turisti stranieri che visitano la nostra nazione – dice:

La Piazza Rossa è una prova per gli stupidi. Se ti piace devi essere completamente pazzo. Se non ti piace significa che sei ugualmente al 100% pazzo. Il luogo è incantato. Ci sono schiere di pazzi ben vestiti che camminano intorno alla Piazza Rossa. Tenete in mente che nel maggio 1945 la Piazza Rossa fu il luogo in cui la Russia imbellettata si rallegrò del grande trionfo sul Fascismo hitleriano!’

Qui di seguito alter idee del Sig Erofeev in merito alla Russia:

Avendo girato il mondo per comprendere meglio la Russia, ho capito che essa rappresenta una seria minaccia al mondo’.

La Russia non è fra le culture capaci di autodeterminarsi. E’ storicamente una nazione disonesta. Essa si basa su delle menzogne.’

La cultura russa è un obitorio a cinque stelle

I commenti sono superflui. In aggiunta bisognerebbe solo notare che – oltraggiosamente come Cam nella Bibbia – il sig. Erofeev non solo insulta i Russi, ma anche tutti coloro che nel mondo ammirano la Russia e si considerano suoi amici.

Qui un altro passaggio da questi scritti barbari:

Un russo è un caso di responsabilità limitata. Non saprai mai cosa ha compreso e cosa non è riuscito ad afferrare. Dovresti parlare ai russi in termini il più semplici possibile. Questa non è una malattia, bensì una condizione storica’.

Il modo di agire con I russi è di mettere la maschera antigas e di attaccare. Loro odiano essere trattati bene. Se tu ti comporti bene con loro, essi si decompongono come salsicce al sole.

Tutti… pensano che i russi abbiano le sembianze di persone normali.. E’ solo un’illusione – sono bestie con quattro nasi.’

La normale condizione di un russo è l’ubriachezza.. Quando è ubriaco un russo sembra se stesso’

La Russia è una nazione vergognosa. Un taccuino di stereotipi. Loro non sono capaci né di lavorare né di pensare in maniera sistematica’

E’ noto che la nazione che il Sig. Erofeev chiama ‘vergognosa’ è rispettata in Italia. Questo rispetto è dovuto non solo alla grande cultura russa e ai legami di lungo termine tra Russia e Italia, ma anche il fatto che storicamente gli italiani hanno avuto l’occasione di incontrare i russi e di poter testimoniare il carattere russo.

Il 28 dicembre 1908, data catastrofica in cui a seguito di un terremoto Messina crollò, i marinai russi si precipitarono a salvare la gente tra le rovine della città, salvando oltre 3000 vite; questa data non è stata dimenticata in Italia. Nel 1910 il governo italiano insignì della medaglia di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia l’Ammiraglio di Divisione V.I. Litvinov delle medaglie di comandanti dell’Ordine della Corona d’Italia tutti i capitani e medici russi della missione, mentre i marinai furono insigniti di medaglie commemorative. Ci sono strade in alcune città italiane intitolate ai marinai russi della missione del 1908.

Sig Graziani, come lei ben sa, il centesimo anniversario della tragedia è stato commemorato in Italia nel dicembre del 2008.

E’ deplorevole che – contro l’evidenza degli eventi passati – un premio letterario sia stato assegnato a Palermo, in Sicilia, a Erofeev, che era stato denunciato due mesi prima da un gruppo di attivisti moscoviti per incitamento all’odio all’interno della nazione russa. Il premio sembra un’espressione di supporto allo scribacchino datogli da una nuova Internazionale che ha bisogno di persone come Erofeevs, per seminare ostilità fra i popoli e quindi spingere il mondo verso la catastrofe.

Gli Italiani sono conosciuti per essere pii cristiani. Quindi dovrebbero sapere come l’uomo di Neanderthal con ambizioni letterarie abbia osato imbrattare l’intero mondo cristiano.

Il Cristianesimo si sta evolvendo in una orchestra folkloristica guidata da Pietro e Paolo…

Sono stanco degli dei in abiti teatrali. Non dovrebbe essere troppo difficile trovare un lavoro per questi veterani del Paradiso. Insieme agli dei dell’Olimpo e a Babbo Natale, potrebbero essere utilizzati per intrattenere i bambini e personaggi di miti istruttivi, di leggende e di favole..

‘Naturalmente convocare una sessione dell’Unesco e commissionare un nuovo dio è un’opzione. E’ più probabile, comunque, che emergerà naturalmente dallo sporco dell’Africa e da internet, fra i senza casa russi, le zanzare del Kolkota, tra i tossicodipendenti di New York..’

‘In essenza il Cristianesimo è stato concepito in maniera eccezionale: la predestinazione della morte in cambio dell’osservazione di regole morali

Questa è la visione del mondo del recente vincitore del premio Mondello. Egli insulta apertamente l’intero mondo, tra cui milioni di cristiani, i costruttori della grande cultura spirituale del genere umano, sia quelli che vivono in questo mondo che quelli che sono passati a miglior vita.

Sig. Graziani, sapendo che lei è un patriota della sua nazione, un sincere amico della Russia e un conoscitore della sua cultura, le chiediamo di riportare sulla sua rivista il vero stato dell’ambiente intellettuale russo, di far conoscere ai suoi lettori gli autori russi di rilievo e di spiegare come si sentono i russi relativamente a questo fenomeno pseudo-culturale, spesso soprannominato ‘russo’ all’estero,  ma che mal rappresenta la sua gente, diffondendo odio verso qualsiasi cosa russa, inculcando disprezzo per gli uomini, odio per Dio, e disprezzo per i valori morali.

Con i nostri migliori saluti,

V.N. Krupin, scrittore, membro del Presidio dell’Accademia Russa delle Arti, Co-Presidente dell’Unione degli Scrittori Russi

E.Z. Tsybenko, Professore Emerito dell’Università statale di Mosca, Dr. in Scienze filologiche, insignito con il titolo di Comandante dell’Ordine al Merito della Repubblica Polacca.

L.S. Krasnova, Professore dell’Università statale di Mosca presso la  facoltà di Lingue Straniere, Dr. in Scienze filologiche

V.V. Voropaev, Professore dell’Università statale di Mosca presso la facoltà di Filologia, Dr. in Scienze filologiche

N.V. Maslennikova, Professore dell’Università statale di Mosca presso la facoltà di Filosofia, Dr. in Scienze filologiche

O.V. Tsybenko, Ricercatore associato, Istituto per gli studi Slavi presso l’Accademia russa delle Scienze, Dr. in Scienze filologiche

A.N. Strizhev, Scrittore, membro dell’Unione degli Scrittori Russi

V.A. Nedzevetski, Professore Emerito dell’Università statale di Mosca, Dr. in Scienze filologiche, vincitore del premio letterario ‘I.A. Goncharov’

G.A. Bogatova, Accademico dell’Accademia Internazionale Slava, Professore dell’Università Ortodossa the St. Tikhon, Dr. in Scienze filologiche

Archpriest Valentin Asmus, Decano della Chiesa ‘Velo Protettore della Santa Vergine’ di Krasnoye Selo, Professore dell’Università Ortodossa the St. Tikhon, MS in Teologia

E.V. Putintseva, referente dell’Arciprete Artemiy Vladimirov (Chiesa di Tutti I Santi a Krasnoye Selo), Dr. in Scienze filologiche

T.L. Mironova, Capo Ricercatore Associato della Biblioteca di Stato russa, Dr. in Scienze filologiche, membro dell’Unione degli Scrittori Russi

V.V. Schmidt, Deputato della  Facoltà di Stato Relazioni Nazionali, Primo Consigliere di Stato della Federazione Russa, Dr. In Scienze filosofiche, membro dell’Accademia Russa di Servizio dello Stato per il Presidente della Federazione Russa

E.A. Bondareva, Direttore di Programmi Pubblici,  Fondazione Prospettive Storiche, Dr. In Scienze storiche

E.A. Popov, Direttore degli Studi Ukraini, Professore all’Università federale del Sud (Rostov-on-Don), , Dr. In Scienze filosofiche

A.S. Novikova, Professore dell’Università statale di Mosca presso la facoltà di Filologia, Dr. in Scienze filologiche

V.I. Maksimenko, Direttore della Fondazione Russkoe Edinstvo per la Promozione della Cooperazione Umanitaria, Dr. in Scienze storiche

S.G. Zamlelova, Scrittore, membro dell’Unione degli Scrittori Russi

Mosca

14 settembre 2009

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Cari Amici Russi,

ho letto con molta attenzione il testo della vostra lettera aperta.

Lo ritengo un simbolico atto di denuncia contro la campagna di disinformazione e demonizzazione attualmente in atto ai danni della vostra nazione e del vostro popolo.

Tale campagna, volta a creare diffidenza verso il popolo russo, vale la pena ricordarlo, è iniziata a partire dagli anni 2000, quando la Russia ha iniziato a rialzare con dignità e fermezza il capo, dopo il collasso sovietico dei primi anni novanta e la successiva gestione el’ciniana della cosa pubblica.

La ragione principale di questa campagna trae la sua origine da una prassi geopolitica perseguita costantemente dalle potenze atlantiche, Gran Bretagna e Stati Uniti in testa, e dalle lobbies che ne determinano la politica estera. Lo scopo di questa prassi è la disgregazione totale dello spazio russo o, perlomeno, il suo accerchiamento.

Lo spazio russo rappresenta infatti l’area perno dell’intera massa eurasiatica. La sua disgregazione (o il suo accerchiamento) produrrebbe un effetto disastroso per il costituendo scenario multipolare, e soprattutto, per lo sviluppo delle relazioni culturali, economiche e politiche tra le Nazioni europee e la Federazione russa.

La campagna russofoba, in cui si inserisce l’opera di Erofeev, è parallela e sinergica ad un’altra campagna, quella islamofoba, orchestrata da Washington e Londra a partire dagli anni novanta.

Anche in questo caso le potenze atlantiche, al fine di limitare ogni possibile intesa, in particolare, tra l’Europa meridionale, il Nordafrica e il Vicino Oriente hanno messo in atto una campagna mediatica volta a produrre diffidenza tra gli Europei e gli appartenenti alla cultura islamica. Anche alcuni “intellettuali” italiani si sono prestati a questa indegna campagna.

Pubblicherò e diffonderò la vostra lettera, affinché sappiate che qui in Italia e in Europa avete amici sinceri e disinteressati che insieme a voi denunciano lo scontro di civiltà alimentato dai think tanks atlantici.

Con i migliori auguri.

Tiberio Graziani

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Sr. Tiberio Graziani,

director de Eurasia. Rivista di Studi geopolitici

Estimado Sr. Graziani:

Con gran pesar descubrimos que el 5 de mayo de 2009 el ciudadano de Rusia, Victor V. Erofeev, que se presenta a sí mismo como “un escritor ruso” recibió el Premio Literario Mondello por El buen Stalin (2004), un texto que es prácticamente desconocido en Rusia y que –evidentemente como resultado de alguna negligencia –fue reconocido como la mejor “novela” del año en Italia. Es triste que individuos culturalmente incapacitados de Rusia y algunos europeos desinformados  hayan caído víctimas  de una provocación absoluta ya que el antedicho autor no puede ser de ningún modo considerado un escritor, y menos aún un escritor RUSO.

La inevitable conclusión a la que llegamos familiarizándonos con la Enciclopedia del alma rusa (1999, segunda y tercera edición de 2002 y 2005 respectivamente) de V. Erofeev es que el libro sólo puede ser considerado un inmoral y antisocial pastiche rusófobo que incita al odio nacional en Rusia. Claramente, el escrito fue generado por alguna desviación mental, una imaginación hiperactiva y por una visión desesperadamente distorsionada. Resulta sorprendente que tal vergonzosa mezcla de odio bestial hacia todo lo ruso, Rusia y hacia la humanidad en general pueda salir a la luz en nuestra época. El mismo lenguaje en que está escrita la “Encyclopaedia” tiene el mismo olor pestilente que los graffitis ofensivos e iletrados que los gamberros dejan  en las paredes. Algunas citas a continuación pueden contribuir a ilustrar suficientemente lo que decimos.

Por ejemplo, el fragmento del texto titulado Domingo Sangriento dice:

“Los rusos deberían ser aporreados.

Los rusos deberían ser abatidos a tiros.

Los rusos deberían ser emparedados.

De lo contrario ya no serían rusos.

El Domingo Sangriento es una fiesta nacional”1.

El fragmento del texto  titulado Plaza Roja –el lugar honrado por los rusos así como por los turistas extranjeros que visitan el país –dice:

“La Plaza Roja funciona como una prueba para los estúpidos. Si te gusta, tienes que ser un completo chiflado. Si no –también significa que eres un chiflado al cien por cien. El espacio está encantado. Hay muchísimos chiflados disfrazados caminando por la Plaza Roja (149). ¡Ten en cuenta que en mayo de 1945, la Plaza Roja era el lugar en el que la Rusia disfrazada se regocijaba por el gran triunfo sobre el fascismo de Hitler!”

Aquí tenemos algunas ideas adicionales del señor  Erofeev acerca de Rusia:

“Habiendo recorrido el mundo para conocer mejor Rusia me di cuenta de que presenta una seria amenaza para el mundo” (197).

“Rusia no se encuentra entre las culturas capaces de auto-determinación. Es un país históricamente deshonesto. Está basado en mentiras.” (122).

“La cultura rusa es un depósito de cadáveres de cinco estrellas” (255).

Los comentarios resultan innecesarios. Sólo habría que indicar que –escandalosamente como Cam en la Biblia –el señor Erofeev de esa manera insultaba no sólo a los rusos, sino también a todos aquellos que en cualquier parte del mundo aprecian a Rusia y se consideran sus amigos.

He aquí otro pasaje de los escritos del bárbaro literario:

“El ruso es un caso de responsabilidad disminuida. Nunca sabrás lo que comprendió y lo que no logró captar. Deberías hablar al ruso medio en términos enormemente simplistas. Esto no es una enfermedad, es una condición histórica” (72).

“El modo de actuar con los rusos es ponerse la máscara de gas y atacar. Odian que se les trate bien. Si eres amable con ellos, se deterioran como una salchicha al sol” (77)

“Todo el mundo…pensaba que los rusos por lo menos tenían el caparazón exterior de la gente normal…Esto es sólo una ilusión –son bestias de cuatro narices” (194).

“La condición normal de un ruso es estar borracho…Cuando está borracho, el ruso se parece a sí mismo” (195, 197)

“Los rusos son una nación vergonzosa. Un cuaderno de estereotipos. No pueden ni trabajar ni pensar sistemáticamente” (46).

Sin embargo, se sabe que la nación que el señor Erofeev llama “vergonzosa” es respetada en Italia. Este respeto se debe no sólo a la gran cultura rusa y a los vínculos, resistentes al paso del tiempo, que existen entre Rusia e Italia, sino también al hecho de que históricamente los italianos han coincidido con los rusos y han sido testigos del carácter ruso.

La catástrofe del 28 de diciembre de 1908, cuando Messina se vino abajo a causa de un terremoto y los marineros rusos se apresuraron a rescatar al pueblo de las ruinas de la ciudad y salvaron por lo menos tres mil vidas, no ha sido olvidada en Italia. En 1910, el gobierno de Italia concedió la medalla de caballero de la gran cruz de la Orden de la Corona de Italia al contralmirante V.I. Litvinov, y medallas de comandante de la orden de la Corona de Italia a todos los capitanes y doctores rusos así como medallas conmemorativas a los marineros rusos por la misión. Asimismo, hay calles en ciudades italianas que llevan los nombres de los marineros rusos que actuaron heroicamente en 1908. Señor Graziani, como usted sabe, el cien aniversario de la tragedia fue conmemorado en Italia en diciembre de 2008.

Es deplorable que –en el contexto de los acontecimientos –un premio literario haya sido concedido en Palermo, Sicilia, a un Erofeev que había sido demandado dos meses antes por un grupo de activistas en Moscú por incitación al odio nacional. El Premio parece ser una expresión de apoyo al escritorzuelo otorgado por la nueva Internacional que, del mismo modo, necesita a los Erofeevs para que susciten  hostilidad entre los pueblos empujando así al mundo hacia la catástrofe.

Se sabe que los italianos son píos cristianos. Deberían ser conscientes de cómo el Neandertal con ínfulas literarias se atrevió a difamar a todo el mundo cristiano:

“La Cristiandad está evolucionando hacia una orquesta folclórica conducida por Pedro y Pablo…”

“Estoy cansado de los dioses en atuendo teatral. No debería ser demasiado difícil encontrar trabajos lo bastante fáciles para esos veteranos del Cielo. Junto con los Olímpicos Griegos y Santa Claus, servirán como tutores para niños y como personajes de mitos, leyendas y cuentos de hadas instructivos…”

“Por supuesto, convocar una reunión de la UNESCO y encargar un nuevo dios es una opción. Sin embargo, es más probable que surja naturalmente de la negra suciedad de África y de Internet, entre los sin techo rusos, las moscas de Calcuta y los drogadictos de Nueva York…”

“En esencia, el acuerdo cristiano fue concebido de forma brillante: la predestinación de la muerte a cambio de que observes normas morales” (210-212).

Tal es el pensamiento global del reciente vencedor del premio Mondello. Abiertamente insulta a todo el mundo, incluyendo a millones de cristianos –los constructores de la gran cultura espiritual de la humanidad, que viven en este mundo y en el otro.

Señor Graziani, sabiendo que usted es un patriota italiano, un auténtico amigo de Rusia y un conocedor de su cultura, le pedimos que describa en su publicación el estado real del ambiente intelectual ruso, que presente a sus lectores a destacados autores rusos y que explique cómo los rusos se sienten acerca de algunos fenómenos pseudo-culturales, a menudo vendidos como “rusos” fuera de Rusia pero que representan de modo lamentable a su pueblo, extendiendo el odio hacia todo lo ruso, inculcando el desprecio hacia los hombres, el odio hacia Dios y la falta de respeto por los valores morales.

Con los mejores saludos,

V.N. Krupin, escritor, miembro del Presidium de la Academia Rusa de las artes, copresidente de la Unión de Escritores Rusos

E.Z. Tsybenko, Profesor Emérito de la Universidad Estatal de Moscú, Dr. en Filología, premiado con la cruz de comandante de la Orden del Mérito de la República de Polonia.

L.S. Krasnova, Profesora, Universidad Estatal de Moscú, Facultad de Lenguas Extranjeras, Dra. en Filología.

V.V. Voropaev, Profesor, Universidad Estatal de Moscú, Facultad de Filología, Dr. en Filología

N.V. Maslennikova, Profesora, Universidad Estatal de Moscú, Facultad de Filología, Dra. en Filología

O.V. Tsybenko, Investigador asociado, Instituto de Estudios Eslavos de la Academia Rusa de la Ciencia, Dr. en Filología

A.N. Strizhev, escritor, miembro de la Unión de Escritores Rusos

V.A. Nedzevetski, Profesor Emérito de la Universidad Estatal de Moscú, Dr. en Filología, ganador del Premio Literario  I.A. Goncharov.

G.A. Bogatova, académica de la Academia Eslava, profesora de la Universidad Ortodoxa de San Tijón, Dra. en Filología

Arcipreste Valentin Asmus, Decano de la Iglesia “Velo Protector de la Santa Virgen” en Krasnoye Selo, Profesor, Universidad Ortodoxa de San Tijón, Máster en Teología.

E.V. Putintseva, referente del Arcipreste Artemiy Vladimirov (Iglesia de Todos los Santos en Krasnoye Selo), Dra. en Filología.

T.L. Mironova, Investigadora Asociada principal de la Biblioteca Estatal Rusa, Dra. en Filología, miembro de la Unión de Escritores Rusos.

V.V. Schmidt, Subdirector de la Facultad Estatal y de Relaciones Nacionales, Primer Consejero Estatal de la Federación Rusa, Dr. en Filosofía, Academia Rusa de Servicio Estatal del Presidente de la Federación Rusa.

E.A. Bondareva, Directora de Programas Públicos, Fundación Perspectivas Históricas, Dra. en Historia.

E.A. Popov, Director de Estudios Ucranianos, Universidad Federal del Sur (Rostov-on-Don), Profesor, Dr. en Filosofía.

A.S. Novikova, Profesora, Universidad Estatal de Moscú, Facultad de Filología, Doctora en Filología.

V.I. Maksimenko, Director de la Fundación para la Promoción de la Cooperación Humanitaria Russkoe Edinstvo Dr. en Historia

S.G. Zamlelova, escritora, miembro de la Unión de Escritores Rusos.

Moscú

14 de septiembre de 2009

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Queridos Amigos Rusos,

he leído con mucha atención el texto de vuestra carta abierta.

Lo considero un acto simbólico de denuncia contra la campaña de desinformación y demonización que se está llevando a cabo actualmente en perjuicio de vuestra nación y de vuestro pueblo.

Tal campaña, destinada a crear desconfianza hacia el pueblo ruso, vale la pena recordarlo, comenzó a partir de la década del 2000, cuando Rusia empezó a alzar nuevamente la cabeza con dignidad y firmeza, después del colapso soviético de los primeros años noventa y de la sucesiva gestión yeltsiniana de la cosa pública.

La razón principal de esta campaña tiene su origen en una praxis geopolítica perseguida constantemente por las potencias atlánticas, Gran Bretaña y Estados Unidos a la cabeza, y por los lobbies que determinan su política exterior. La meta de esta praxis es la disgregación total del espacio ruso o, por lo menos, su cerco.

El espacio ruso, de hecho, representa el área de pivote de toda la masa eurasiática. Su disgregación (o su cerco) produciría un efecto desastroso para el constituyente escenario multipolar y, sobre todo, para el desarrollo de las relaciones culturales, económicas y políticas entre las Naciones europeas y la Federación rusa.

La campaña rusófoba, en la que se inserta la obra de Erofeev, es paralela y sinérgica a otra campaña, la islamófoba, orquestada por Washington y Londres a partir de los años noventa.

También en este caso las potencias atlánticas, con el fin de limitar todo posible entendimiento, en particular, entre la Europa meridional, el Norte de África y Oriente próximo han puesto en marcha una campaña mediática destinada a producir desconfianza entre los Europeos y los pertenecientes a la cultura islámica. También algunos “intelectuales” italianos se han prestado a esta indigna campaña.

Publicaré y difundiré vuestra carta para que sepáis que aquí en Italia y en Europa tenéis amigos sinceros y desinteresados que junto a vosotros denuncian el choque de civilizaciones alimentado por los think tanks atlánticos.

Con los mejores deseos,

Tiberio Graziani

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Tiberio Graziani

Eurasia. Rivista di studi geopolitici

Cher Monsieur Graziani,

C’est avec le plus grand regret que nous avons appris que le 5 mai 2009 un citoyen russe, Victor V Erofeev, qui se présente comme historien, a reçu le Prix Mondello pour “Le Bon Staline” (2004), un texte quasiment inconnu en Russie et qui fut, certainement par négligence, désigne meilleur roman de l’année en Italie. Il est triste que des personnes culturellement handicapées en Russie et des Européens mal informes se soient laisses prendre aux provocations de cet auteur que l’on peut difficilement reconnaître comme un écrivain en encore moins comme un écrivain russe.

La conclusion inévitable a laquelle nous sommes arrives, après nous être familiarises avec son “encyclopédie de l’ âme russe” (1991, republiée en 2002 et en 2005) est que ce livre immoral et anti-social ne peut être décrit que comme un tract russophobe et une incitation a la haine. Cet écrit est en effet motive par la déviance mentale, une imagination délirante et une perception deformée. Il est étonnant qu’un tel haine de toute chose russe et de l’humanité en général voie la lumière a notre époque. Le langage même dans lequel l’Encyclopédie est écrit fait penser aux graffitis raciste qu’on trouve sur les murs.

Quelques citations tirées de la section “Dimanche sanglant” illustrent cette comparaison:

“Les russes doivent être battus”, “les russes doivent être abattus”, “les russes devraient être mures, sinon ils ne seraient plus russes”, “le dimanche sanglant est une fête nationale”.

Un passage de ce texte intitule “Place rouge” dit: “La place rouge constitue une épreuve pour les idiots. Si vous l’aimez, vous devez être fou. Si vous ne l’aimez pas, cela veut dire que vous étés aussi fou a 100%. L’espace est hante. Il y a beaucoup de fous costumes qui arpentent la place rouge. Souvenez vous qu’en mai 1945 la place rouge fut le lieu ou la Russie costumée s’est réjouie de son triomphe sur le fascisme d’Hitler”.

Voici quelques autre idées d’Erofeev concernant la Russie:

“Ayant fait le tour du monde pour mieux comprendre la Russie, je me suis aperçu qu’elle représente une sérieuse menace pour le monde. La Russie ne fait pas partie des cultures capables d’autodétermination. C’est un pays historiquement malhonnête. Elle est fondée sur des mensonges.”

“La culture russe est une morgue cinq- étoiles”.

Les commentaires sont superflus. On doit remarquer que, aussi outrageant que le Cham biblique, Mr. Erofeev insulte non seulement la Russie mais aussi tous ceux dans le monde qui l’aiment et se considèrent ses amis.

Voici un autre passage:

“Un russe est un échantillon de responsabilité diminuée. Vous ne comprendrez jamais ce qu’il a compris et ce qu’il n’a pas saisi. Vous devez parler a des russes ordinaires dans les termes les plus simplistes. Ce n’est pas une maladie, c’est une condition historique”.

“La façon d’agir avec les russes c’est de mettre un masque a gaz et d’attaquer. Ils n’aiment pas être bien traites. Si vous leur étés agréable, ils se décomposent comme des saucisses au soleil”.

“Tout le monde pensait que les russes avaient au moins les apparences de gens normaux…Ce n’est qu’une illusion. Ce sont des bêtes a quatre nez”, “la condition normale en Russie c’est l’ivrognerie. Quand il est ivre le russe est vu sous son vrai jour”.

“Les russes sont un people honteux, un catalogue de stéréotypes. Ils ne peuvent ni penser ni travailler systématiquement”.

On sait pourtant que la nations appelée honteuse par Erofeev est respectée en Italie.  Ce respect est du non seulement a la grande culture russe et aux liens anciens entre la Russie et l’Italie mais aussi au fait que les Italiens ont eu l’occasion de rencontrer des russes et d’éprouver leurs qualités.

Le séisme du 28 décembre 1908 qui détruisit Messine, quand les marins russes vinrent au secours des habitants et sauvèrent au moins 3000 personnes dans les ruines, n’est pas oublie. En 1910, le gouvernement italien décerna la grand-croix de l’ordre de la couronne de fer au contre-amiral V I Litvinov et les croix de commandeur de l’ordre a tous les capitaines et médecins de l’escadre ainsi que des médailles commémoratives aux médecins russes pour cette mission. Il y a des rues en Italie qui portent les noms des herboriseurs marins russes de 1908.

Comme vous le savez, Monsieur Graziani, le centenaire de la tragédie fut commémore en décembre 2008.

Il est déplorable qu’au vu de ces évènements, un prix littéraire ait été décerné a Erofeev a Palerme bien que ce dernier soit poursuivi en justice pas un groupe d’activistes a Moscou pour incitation a la haine. Le prix semble avoir été une expression de soutien pour cet écrivassier de la part de la nouvelle Internationale qui l’utilise pour créer l’hostilité entre les peuples et pousser le monde a la catastrophe.

Les italiens ont la réputation d’être de pieux chrétiens. Ils devraient être informes de ce que ce “Neanderthal”  aux grandes ambitions littéraires a écrit sur la religion:

“Le christianisme devient un orchestre folklorique dirige par Pierre et Paul”.

“Je suis fatigue de dieux en costumes de scène. On devrait trouver sans trop de mal des taches faciles pour ces vétérans du ciel. Avec les olympiens et le Père Noël ils  serviront de tuteurs pour les enfants et de personnages pour les légendes, les mythes édifiants et les contes de fées”.

“Bien entendu, convoquer une séance de l’UNESCO pour commander un nouveau dieu est une possibilité.  Il est plus probable cependant que ce nouveau dieu sortira naturellement de la crasse noire de l’Afrique et de l’Internet parmi les sans-abris russes, les mouches de Calcutta et les drogues de new York”.

“En vérité, la combine chrétienne fut brillamment conçue: prédestination de la mort (sic) au prix de l’observance de normes morales”.

Telle est la “pensée globale” du récent lauréat du Mondello. Il insulte ouvertement des millions de chrétiens, dans ce monde et dans l’autre.

Mr. Graziani, sachant que vous étés un patriote, un ami de la Russie et un connaisseur de sa culture, nous vous prions de defender dans votre journal l’état actuel du milieu intellectuel russe, de présenter d’éminents auteurs russes a vos lecteurs et d’expliquer ce que les russes éprouvent a l’encontre de ces phénomènes pseudo-culturels, souvent désignes comme russes a l’Etranger, qui dénigrent son people, répandent la haine de sa culture et le mépris de l’humanité, la thermoïnique et le rejet des valeurs morales.

Avec nos meilleurs sentiments.

V.N. Krupin, Écrivain, membre Académie russe des Art, Coprésident de l’Union des écrivains russes

E.Z. Tsybenko, Professeur émérite de l’Université de Moscou, docteur des sciences philologiques, décerné avec le titre de Commandeur de l’Ordre du Mérite de la République de Pologne

L.S. Krasnova, Professeur de Université d’Etat de Moscou à la Faculté des langues étrangères, Dr. en sciences philologiques

V.V. Voropaev, Professeur de l’Université de Moscou à la Faculté de Philologie, Dr. en sciences philologiques

N.V. Maslennikova, Professeur de l’Université de Moscou à la Faculté de philosophie, Dr. en sciences philologiques

O.V. Tsybenko, Associé de recherche, Institut d’études slaves de l’Académie russe des Sciences, Dr. en sciences philologiques

A.N. Strizhev, Écrivain, membre de l’Union des écrivains russes

V.A. Nedzevetski, Professeur émérite de l’Université de Moscou, docteur des sciences philologiques, lauréat du Prix littéraire « IA Goncharov »

G.A. Bogatova, Académie internationale slave, Université Orthodoxe St. Tikhon, docteur en sciences philologiques

Archiprêtre Valentin Asmus, Eglise ‘Voile Protecteur de la Sainte Vierge » de Krasnoye Selo, Professeur à l’Université orthodoxe Saint-Tikhon, MS en théologie,

E.V. Putintseva, Référent de l’ Archiprêtre Artemiy Vladimirov (Eglise de Tous les Saints – Krasnoye Selo), Dr. en sciences philologiques

T.L. Mironova, Associée de recherche principale de la Bibliothèque d’Etat russe, Dr. en sciences philologiques, membre de l’Union des écrivains russes

V.V. Schmidt, Premier Conseilleur d’Etat de la Fédération de Russie

E.A. Bondareva, Directeur des programmes publics, la Fondation Perspectives historiques

E.A. Popov, Directeur des Etudes de l’Ukraine, Professeur, Université fédérale du Sud (Rostov-sul-Don)

A.S. Novikova, Professeur de l’Université de Moscou à la Faculté de Philologie, Dr. ès sciences philologiques

V.I. Maksimenko, directeur de la Fondation Russkoe Edinstvo pour la promotion de la coopération humanitaire, docteur en histoire.

S.G. Zamlelova, Écrivain, membre de l’Union des écrivains russes

Moscou

14 Septembre 2009

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La vendetta, la barbarie ed il film di Quentin Tarantino : Bastardi senza gloria

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Fonte: CounterPunch, 18 septembre 2009

Ancora una volta, Quentin Tarantino è riuscito a produrre l’impossibile : un « film anti-olocausto ». Come genere cinematografico, i film sull’olocausto possono essere intesi come la rappresentazione cinematografica realistica della « vittima ebrea » (un individuo innocente ed inoffensivo) a confronto con la più brutale ideologia burocratica mai esistita : il Nazismo. Questo genere cinematografico può essere avvertito come un intenso ricatto emozionale che dipinge la storia del ventesimo secolo attraverso un’identificazione  empatica con un protagonista ebreo fantasmagonicamente senza macchia.

Occorre precisare che questo genere ha un incredibile successo ? Si tratti di Schindler’s List, del Pianista, di Ogni cosa è illuminata, del Bambino  con il pigiama a righe o di qualsivoglia altro film sulla Shoah (termine ebraico che significa Olocausto), l’argomento della vicenda è sempre lo stesso: l’innocenza ebraica contro il terrore di Stato istituzionalizzato.

Ma Tarantino, lui, riesce a risolvere quella contraddizione manifesta tra l’« innocenza ebraica » cinematografica e la « realtà criminale » del nazionalismo ebraico. E vi riesce pure magistralmente, per mezzo di una finzione. Nella sua messa in scena puramente fantastica, l’Ebreo è un essere mosso dalla vendetta. È un selvaggio iconico, assetato di vendetta e cacciatore di scalpi, un assassino ispirato dalla Bibbia. Nell’ultimo film epico di Tarantino, per la prima volta, l’Ebreo della diaspora assomiglia al suo nipote israeliano. Per mezzo di un intreccio da cinema fantastico, la storia è divenuta un continuum omogeneo nel quale il passato ebraico ed il presente israeliano sono riuniti in un inesorabile circuito di vendetta suicida.

Se è vero che alcuni film possono effettivamente assomigliare ai sogni e all’inconscio, l’ultimo film di Tarantino può essere inteso come un invito a svegliarsi ; egli mette in luce alcune cose che noi ci ingegnamo ad eliminare e a negare.

A prima vista, Bastardi senza gloria corrisponde al tipico modello del film hollywoodiano sulla Seconda guerra mondiale. In questo film, un’unità speciale di Ebrei americani (i Bastardi senza gloria) sbarca nella Francia occupata al solo scopo di insegnare ai Nazisti il significato delle rappresaglie ebree. Tendono imboscate a pattuglie naziste, poi uccidono i loro prigionieri, mostrando la loro estrema brutalità, sia nello scalpare i Nazisti uccisi sia nel finire quelli non ancora morti, fracassando loro il cranio a colpi di mazza da baseball.

I Bastardi lasciano – sempre – in vita un testimone tedesco, affinché possa raccontare la loro spietata brutalità e diffondere così la paura del terrore ebraico. Hanno l’abitudine di incidere con la baionetta uno swastika sulla fronte del sopravvissuto, al fine di rendere quel Nazista identificabile da tutti, dopo la guerra. Ciò può essere visto come una riedizione aggiornata dell’occhio di Caino. Tuttavia, in questo caso, ad assumere il ruolo del Dio-Padre è una banda di « umani senza gloria ».

Il film si apre su una scena che ci riporta nella Francia del 1941, sotto l’occupazione tedesca. Il colonnello delle Waffen SS Hans Landa (interpretato da Christoph Waltz), alias « il cacciatore di Ebrei », interroga un contadino francese produttore di latte a proposito di voci secondo cui egli nasconderebbe una famiglia di Ebrei, anch’essi produttori di latte della zona. Il colonnello Landa riesce a farlo parlare ed egli confessa di nascondere i suoi Ebrei sotto il pavimento di legno. Il colonnello Landa ordina allora ai suoi uomini di sparare attraverso il pavimento, uccidendo tutti gli Ebrei nascosti, salvo l’adolescente Shoshanna (Mélanie Laurent), che riesce a fuggire in un bosco (1).

Tre anni dopo la fuga, Shoshanna riappare a Parigi sotto una nuova identità. Diviene proprietaria di una piccola sala da cinema. Il film raggiunge il suo culmine quando Shoshanna approfitta di questa opportunità per vendicare la morte dei membri della sua famiglia. Ella compie un atto suicida, eroico, causando ustioni mortali a tutta la direzione e a tutto l’alto comando nazista che, per un caso straordinario, si trovano riuniti nel suo piccolo cinema di quartiere  per vedervi l’ultimo film di propaganda nazista prodotto da Goebbels. Mentre i Nazisti muoiono bruciati vivi, (ben fatto, na !), il cinema è interamente distrutto e Shoshanna, il cui volto occupa tutto lo schermo, scossa da un riso sardonico, informa i suoi clienti cinefili nazisti che stanno bruciando :

« Questo è il volto della vendetta ebrea ! ».

Da un punto di vista ebraico, l’atto suicida di Shoshanna può essere percepito come un riferimento all’eroe biblico Sansone, che fa crollare su di sé un tempio filisteo; l’importante è che vecchi, donne e bambini (che, manifestamente, non ama) muoiano con lui. Nell’ultimo film di Tarantino, invece di vedere la classica scena di Nazisti che bruciano Ebrei, di fatto è un’Ebrea che rinchiude a doppia mandata dei Nazisti e li brucia fino a farli morire.

Ebrei contro Nazisti

Bastardi senza gloria mi ha fatto proprio sorridere senza fine. Quentin Tarantino ha ragione ed ogni Ebreo dovrebbe mandargli due parole di ringraziamento. Ecco il mio “ Sarah Silverman, su Twitter. Verrebbe da chiedersi per quale ragione un produttore ebreo, complice di Israele e del Sionismo, stia dietro un film come questo che disegna un ritratto degli Ebrei così orripilante. La risposta è molto semplice: i Sionisti si compiacciono nel vedersi come persone vendicative e senza pietà. In Israele, Sansone, nient’altro che un assassino genocida, è considerato pari ad un eroe eterno. È riuscito a dare il suo nome anche ad un battaglione di « Tsahal » ! Non è un segreto che l’immaginario del castigo sia profondamente radicato tanto nella psiche sionista quanto nella politica israeliana.

Il « mai più » non ha altra funzione che quella di suggerire agli Israeliani che gli Ebrei non saranno mai più inviati al mattatoio come agnelli. In pratica, significa che gli Ebrei replicheranno e che lo faranno con tutta la violenza possibile. Le rappresaglie sono uno degli elementi chiave per la comprensione del comportamento israeliano. Più il film presenta un’immagine raccapricciante dell’Ebreo vendicatore, più gli Ebrei ed i Sionisti mostrano di sostenere questo film e anche di apprezzarlo.

Ma Tarantino non si ferma qui : nel suo film, propone una critica inesorabile dell’identità ebraica stabilendo un raffronto tra i protagonisti ebrei e i protagonisti nazisti.

Contrariamente ai monolitici protagonisti ebrei, obnubilati dalla vendetta (i Bastardi senza gloria e Shoshanna), i Nazisti di Tarantino sono, per la maggior parte, complessi e multidimensionali. In primo luogo, essi presentano un dualismo, anzi perfino una contraddizione, tra la loro individualità ed il loro ruolo collettivo. Là dove i protagonisti ebrei presentano una convinzione che unifica le loro dimensioni personale e tribale nella loro ossessione di vendetta, di fatto il colonnello SS Landa, il « cacciatore di ebrei », rimbalza in permanenza tra l’edonismo e l’obbedienza omicida al Nazismo. Peraltro, il  colonnello è un Austriaco di buona educazione, colto, un uomo affascinante. Eppure, in pochi secondi, può mutarsi in una belva mostruosa. Egli interpreta il suo comportamento in termini di produttività, sta facendo « fa il suo lavoro ».

La sera, fa il detective : il suo compito consiste nel localizzare gli Ebrei nei loro nascondigli. Il colonnello Landa riconosce di essere piuttosto abile in questo, perché capace di « pensare come un Ebreo »: può dire in anticipo come potrebbero comportarsi delle persone « prive di dignità ». Contrariamente ai protagonisti ebrei che non parlano alcuna lingua straniera, il colonnello Landa è immerso nelle culture occidentali. Oltre alla sua lingua madre, il tedesco, egli parla correntemente l’inglese, il francese e l’italiano. Contrariamente ai protagonisti ebrei concentrati unicamente sulla loro vendetta, Landa finisce per tradire il III Reich unicamente per porre fine alla guerra e perché, infine, l’Europa conosca la pace. Inutile precisare che, nello stesso tempo, anche lui si dà da fare per procurarsi un futuro, negoziando con un « pezzo grosso » americano.

Fredrick Zoller (Daniel Brühl) è un’altra illustrazione dell’identità multidimensionale nazista. Zoller interpreta il ruolo-star di un giovane eroe della Wehrmacht, l’esercito tedesco, nell’ultimo film di propaganda di Goebbels. Nonostante sia una macchina per uccidere ben decorata, egli è ben lungi dall’esserne orgoglioso : lo ha fatto per difendersi ; la sua vera passione è il cinema. Ed è nel cinema che egli incontra Shoshanna e se ne innamora, inconsapevole di chi ella sia e del suo progetto di vendetta. Mentre Zoller può estraniarsi facilmente dal suo ruolo di eroico soldato nazista, anzi di macchina per uccidere, Shoshanna non è disposta nemmeno a considerare la possibilità [di dimenticare chi è]. È determinata a compiere la sua missione. Finirà con lo sparargli un proiettile nella schiena, prima di eliminare tutta la direzione nazista.

Guida elementare al simbolismo tarantiniano

Simbolismo e storia

Come accennato in precedenza, i Bastardi senza gloria incidono degli swastika sui soldati tedeschi ai quali è consentito di sopravvivere al loro martirio.

Dire che la storia della Seconda guerra mondiale è lungi dall’essere largamente accessibile  e liberamente dibattuta, non è certo rivelare un segreto. Invece di tentare di sviluppare il significato della storia e della dinamica storica, noi siamo sottoposti ad una crescente saturazione di simboli (e pure di leggi) che suggeriscono quali opinioni siamo autorizzati ad avere e quali ci sono proibite. I « terroristi », i « Nazisti » e il « Fascismo » sono, ovviamente, i « cattivi »; quanto alla « democrazia » e alla « libertà », esse sono i « buoni ». Qui, Tarantino ci propone una critica impietosa di questa situazione. Il fatto di incidere dei simboli (nel caso, degli swastika) sulla fronte delle persone è una forma per mantenere la propria egemonia. A quanto pare, siamo semplicemente così forti da decretare una « verità ». Se, in compenso, noi fossimo stati (e se fossimo) interessati al solo significato della nostra storia, non saremmo forse stati ( e forse non lo saremmo oggi) in grado di impedire all’Impero anglosassone di reiterare il crimine perpetrato a Dresda, a Hiroshima, nel Vietnam, in Iraq e a Gaza ?

Il Golem

Ad un certo momento, l’alto comando nazista è convinto che l’«Orso ebreo », un « cacciatore di Nazisti mulinante una mazza da baseball » sia in realtà un Golem vendicatore, al quale un rabbino folle di collera dà i suoi ordini. Nella leggenda ebraica, il Golem è una creatura modellata nell’argilla, in cui viene insufflata la vita per mezzo di incantesimi magici. Nel film, l’ « Orso ebreo » è in realtà il Sergente Donny Donowitz (Eli Roth), comandante in seconda dei Bastardi. Il riferimento al Golem è molto significativo : evidentemente, anche i Nazisti non credono che un essere umano possa rivelarsi estremamente brutale  nei confronti dei suoi congeneri umani. Tuttavia, qui il simbolismo può essere ancora più importante. Il Golem ha la parola ebraica « verità » incisa sulla fronte. Per i Bastardi senza Gloria, la nozione di verità è quella « verità » che cercano di imporre agli altri incidendo loro degli swastika sulla fronte.

Il Sabbath Goy

Il tenente Aldo Raine (Brad Pitt), comandante dei Bastardi sena gloria, è un goy americano che non ha niente a che vedere con il giudaismo, né  con la giudaicità. È un ufficiale originario del Tennessee, dall’accento greve e guidato dalla vendetta. Ciò può far sorgere la domanda del perché Tarantino abbia messo un cowboy goy nella posizione di dirigere i Bastardi ebrei. Può darsi che Tarantino voglia semplicemente suggerire l’idea che il Tenente Raine sia solo uno strumento (o un « mercenario per procura ») delle rappresaglie ebraiche. Per quanto devastante possa sembrare, le relazioni che egli intrattiene con i suoi subalterni  ebrei possano essere paragonate a quelle tra Bush ed i suoi neoconservatori guerrafondai. Difficile decidere: il Tenente Raine è un candidato alla alla giudaicità oppure è lui, in quanto selvaggio assetato di sangue, a capitalizzare sulla vendetta ebraica ? Ma una cosa è del tutto chiara : secondo l’immaginario cinematografico di Tarantino, l’associazione dell’America  agli Ebrei è ben lungi dall’essere un’avventura sana dal punto di vista umano.

Il film e il sogno

Invece di essere noi a guardare il contenuto di un sogno, possiamo immaginare che sia il sogno a guardare noi, a vedere in noi il suo « contenuto di realtà ». Quando accade, nel sogno, siamo generalmente noi e la nostra cosiddetta realtà psicologica che non solo veniamo osservati, ma anche passati al setaccio. Nella maggior parte dei casi, l’interpretazione dei sogni è fondata sul presupposto che, nel sogno, dei flussi involontari di pensieri vengono a puntare i loro riflettori sui nuclei forti del nostro essere. Il sogno ha la funzione di attirare la nostra attenzione su quelle cose che noi occultiamo e neghiamo. Quest’idea ci richiama il ritorno di Slavoj Zizek a quello slogan degli anni 1960, secondo il quale « la realtà è fatta per quelli che sono incapaci di affrontare il sogno ».

Il film è assimilabile al ruolo del sogno. Per quanto tendiamo a crederci gli spettatori, talvolta siamo in realtà noi gli osservati. L’ultimo film di Tarantino ne è un classico esempio: esso ha l’obiettivo di innalzare la nostra coscienza fino al regno delle idee  che noi vogliamo a tutti i costi evitare. Solleva delle domande che noi consideriamo tabù. Ci dà un’opportunità di vederci dal punto di vista dell’inconscio. Attraverso la fantasia, esso disegna la nostra realtà. Come nel sogno, Bastardi senza gloria sposta e rimodella degli avvenimenti senza alcuna connessione con la verità storica ed il film, del resto, non cerca di smontare alcun fatto storico riconosciuto. Esso non obbedisce a nessuna narrativa riconosciuta, eppure prodiga significati. Forse il successo del film è attribuibile alla sua capacità di comunicare con alcune realtà pre-simboliche (il reale lacaniano). Ci spoglia del nostro simbolismo e del nostro ordine simbolico. In quanto opera d’arte, ci riavvicina all’Essere.

Attraverso la violenza, esso colpisce il nostro nucleo etico e risveglia, speriamolo, la nostra aspirazione alla gentilezza. Per la prima volta, noi trascendiamo la contraddizione che ci auto-imponiamo chiudendo gli occhi sulle origini del Sionismo, della barbarie e della fomentazione delle guerre su scala globale. Attraverso la finzione, arriviamo a guardare il male negli occhi ed è esattamente in quel momento cruciale che Tarantino mette il punto finale al suo film. Nell’ultima sequenza, la cinepresa assume il ruolo degli occhi del Tenente Raine (un punto di vista immediato). In sostanza, osserviamo il Tenente Raine mentre taglia sadicamente con la sua baionetta la fronte del Colonnello Landa. In pratica, nel linguaggio cinematografico, osserviamo con orrore il Tenente Raine incidere degli swastika sulla fronte di tutti noi.

Secondo Lacan, l’inconscio è la lingua dell’Altro. È questa dolorosa verità che noi tentiamo di nascondere all’altro, pur sapendo che questa dissimulazione è senza dubbio impossibile. Da una prospettiva ebraica, Bastardi senza Gloria avrebbe dovuto essere compreso come un incubo in cui un brutto sogno diventa realtà. Ma è quasi impossibile negare che Tarantino è lì fuori, a gridare : « Il Re è nudo » : non è né una vittima, né un innocente. Il fatto che molti Ebrei siano incapaci di vederlo  e che, al contrario, finiscano per lodare questo film è indubbiamente un’indicazione che turba ulteriormente per il fatto che l’identità collettiva sionista  è arrivata a distaccarsi  da ogni nozione riconosciuta di realtà umana. Per quanto possa sembrare triste, ciò spiega il sostegno istituzionale che l’ebraismo mondiale apporta ad Israele. Ciò forse spiega anche la ragione per cui i Sionisti, in quanto collettivo, sono incapaci di interiorizzare il significato della Shoah. Invece di ricercare la grazia in se stessi, i Sionisti non cessano di lanciarsi nella caccia ai Nazisti e di segnare altri con diverse etichette e diversi simboli.

Per troppi anni, le lobby sioniste sono riuscite in tutto il mondo a smantellare ogni critica ad Israele. Sono riuscite a fare della storia della Seconda guerra mondiale una zona di ricerca ristretta ai soli Ebrei. Sono riuscite a trasformare la nostra conoscenza del passato  in uno scambio simbolico, ma hanno più o meno fallito il loro tentativo di ridurre al silenzio il sogno. A questo punto Tarantino entra in gioco: attraverso una finzione, egli riesce a dirci quella  che, in fondo, è la nostra realtà.

Mentre i Bastardi senza Gloria, Shoshanna e gli Israeliani (che si sono ammassati sulle colline attorno a Gaza per osservare il loro esercito mentre seminava la morte) traggono un autentico piacere dalla loro vendetta, è possibile che attraverso due ore e mezza di terapia sotto la direzione di Tarantino, noi siamo dopotutto in grado di imparare a goderci i nostri sintomi e a dirlo ad alta voce: « Ne abbiamo abbastanza ! Basta vendetta veterotestamentaria ! Stop alla barbarie ! Vogliamo invece grazia e misericordia !»

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(1) in riferimento al produttore di latte, Tarantino riesce, con grande sottigliezza, à caratterizzare la scenografia della sua fantasia da fiction che seguirà. Non arriverò a sostenere che, indubbiamente, nella Francia occupata dai Tedeschi non c’era NESSUN produttore di latte ebreo. Tuttavia, è certo che la produzione di latte non era precisamente la tipica professione ebraica. Questa stessa scena ci insegna inoltre che i figli della famiglia ebrea si chiamano Shoshanna e Amos. Qui sembra ancora trattarsi di un dettaglio senza importanza. Ma in realtà, è del tutto cruciale. In effetti, Amos non è assolutamente un nome corrente nella Diaspora ebraica. Si tratta, in realtà, di un nome biblico.

Traduzione eseguita da Belgicus dalla versione francese di Marcel Charbonnier

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Seminario ‘La Russia post-sovietica nell’attuale contesto internazionale

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Seminario

La Russia post-sovietica nell’attuale contesto internazionale

Introduzione – Luigi Marino ‘Associazione Culturale Maksim Gor’kij’

Conclusioni – Tatjana Viktorovna Kudinova, Docente di Storia dell’Europa Orientale ‘Università Statale Pedagogica di Kursk’

Lunedì 12 ottobre 2009 – ore 17.30

Associazione Culturale ‘Maksim Gor’kij’

Napoli – via Nardones, 17 (immediate adiacenze di piazza Trieste e Trento)

tel. 081 413564

www.associazionegorki.it

info@associazionegorki.it

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Azerbaigian e Kazakistan inaugurano un nuova oleodotto diretto ad ovest

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Fonte: Global Research, 26 settembre 2009 – Reuters/Azeri Press Agency

Baku: il Kazakistan, che prevede di raddoppiare la produzione di petrolio nei prossimi dieci anni, è in trattative con il vicino, sul Mar Caspio, Azerbaigian per trovare nuove vie per esportare verso il Mar Nero, e oltre, il proprio volume extra di greggio. Le ex-repubbliche sovietiche stanno prendendo in considerazione diverse opzioni, compresa la costruzione di un nuovo gasdotto, per incrementare le quantità ora trasportate con le navi-cisterna attraverso il Mar Caspio, hanno detto dei funzionari kazaki e azeri.

Timur Kulibayev, Vice-Direttore Esecutivo del fondo pensionistico statale kazako Samruk-Kazyna, ha detto che il previsto aumento della produzione – in particolare dal giacimento di Kashagan, grazie alla sua inaugurazione nel 2012 – creerà la necessità di aumentare le capacità di transito.

Abbiamo avuto colloqui con la compagnia petrolifera di stato azera ieri, e abbiamo deciso di prendere in considerazione un percorso aggiuntivo per il trasporto del petrolio kazako … verso il Mar Nero“, ha detto in un briefing, Kulibayev. Ha detto che il greggio potrebbe poi essere consegnato alla Rompetrol, una società rumena di prodotti petroliferi di proprietà della KazMunaiGas del Kazakistan [KMG.UL].

Il Kazakhstan, è il maggior produttore di petrolio in Asia centrale, già esporta con le petroliere, petrolio di sua produzione, che attraversano il Mar Caspio fino a Baku, da dove alimenta gli oleodotti di Baku-Ceyhan e Baku-Supsa. Rovnag Abdullayev, direttore esecutivo della società petrolifera di stato azera Socar, ha detto nello stesso briefing, che l’Azerbaijan stava guardando le varie opzioni per aumentare le forniture di petrolio kazako. “Potrebbe essere sia l’esistente oleodotto Baku-Supsa e, se necessario, un nuovo oleodotto fino al Mar Nero“, ha detto Abdullayev. Entrambi i funzionari hanno detto che è troppo presto per specificare i volumi delle spedizioni supplementari o altri dettagli del progetto.

Il Kazakhstan progetta di raddoppiare la produzione di petrolio, fino a 150 milioni di tonnellate all’anno, entro il prossimo decennio, in gran parte con l’inizio della produzione a Kashagan, il giacimento di petrolio più grande del mondo, trovato negli ultimi 30 anni. La Russia è il principale paese di transito per il greggio kazako, ma dei volumi minori transitano anche verso il Caucaso e la Cina.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Washington cerca egemonia del Caucaso meridionale

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Fonte: Global Research 26 settembre 2009 – NEWS.am

Gli Stati Uniti e la Russia sono in gara per il controllo delle risorse energetiche, e tutti i processi nel Caucaso meridionale dovrebbero essere considerati in questo contesto, ha detto a NEWS.am Andranik Tevanyan, direttore del centro di economia politica, commentando le notizie sui piani del Pentagono per il dispiegamento di basi militari in Georgia entro il 2015.

Sì, Washington ha abbandonato l’idea di implementare sistemi ABM in Europa orientale, ma non rinuncerà al suo progetto a lungo termine. A lungo termine, Washington prevede di schierare truppe in Georgia, e l’intensificazione del processo di avvicinamento armeno-turco, sono componenti del piano, che è designato come un ‘grande e alternativo pacchetto dell’energia’“, ha detto Tevanyan.

Secondo lui, gli Stati Uniti stanno cercando di risolvere tutti i problemi del Caucaso meridionale in una sola volta, in modo da garantire la propria egemonia sulla regione e fare un passo avanti, verso le fortemente desiderate risorse energetiche. Tevanyan ha sottolineato che le basi militari non saranno dirette contro un qualsiasi paese – sono solo istituite da Washington “per avvicinarsi” alle risorse energetiche dell’Asia centrale e dell’Azerbaigian.

Per quanto riguarda le possibili conseguenze dei piani del Pentagono nel Caucaso meridionale, Tevanyan ha sottolineato che le basi militari statunitensi, in Georgia, significano ulteriori linee di divisione nel sistema di sicurezza regionale, in considerazione del fatto che l’Armenia è un membro della Collective Security Treaty Organization. D’altra parte, Tevanyan dubita che per Washington sarà facile attuare i suoi piani nel Caucaso meridionale. “Non credo che la Russia cederà facilmente a Washington”, ha detto Tevanyan.

Le prospettive per l’implementazione di una base militare statunitense in Georgia rimangono ancora vaghe“, ha detto Tevanyan. Ha sottolineato che una corsa agli armamenti nella regione è contro gli interessi dei paesi del Caucaso meridionale. “L’Armenia, così come gli altri paesi della regione, deve cercare di sbarazzarsi degli oneri militari di paesi terzi e non deve permettere che la regione sia trasformata in un’arena per il dispiegamento della forza militare delle superpotenze“, ha detto Tevanyan.

Secondo quanto riferiscono i media, il Pentagono sta elaborando un accordo con la Georgia. Secondo l’accordo, gli Stati Uniti costituirebbero due basi terrestri e una navale in Georgia, entro il 2015. La costruzione inizierebbe nel 2014, per essere completata l’anno successivo. Così, il Pentagono prevede di schierare 25.000 effettivi in Georgia.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Germania sempre meno tedesca

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Le elezioni di domenica in Germania sono indubbiamente andate secondo le previsioni; un segnale vi era già stato poche settimane fa con le elezioni regionali in tre länder. Interessante il calo dell’affluenza (72%), con andamento continuo dal 2002 al 2005 a oggi. Tuttavia, non se ne traggano chissà quali conclusioni strampalate. Queste ultime saranno quasi sicuramente fantasticate dai nostri settori di sinistra “estrema” (sto usando le solite, stantie, etichette, tanto per intendersi) in merito alla crescita dei verdi e soprattutto della Linke, che sarà salutata da alcuni beoti come il ritorno di una esigenza di trasformazione sociale anticapitalistica.

La Linke è radicata soprattutto nelle regioni della vecchia RDT (la Germania detta orientale e presunta comunista). Vi sono in quelle zone quote di nostalgici, ma soprattutto gente che indubbiamente si sentiva maggiormente assistita poiché il socialismo, come ormai era in voga in tutti i partiti comunisti (anche occidentali), era semplicisticamente identificato con lo statalismo più spinto. In realtà, si tratta di una formazione politica che vuole un po’ di protezione sociale in più e che quindi, in specie in questa fase di crisi (probabilmente endemica), avrà il compito (comprensibile e giustificato) di chiedere protezione per settori sociali particolarmente deboli, maggiormente esposti agli effetti della crisi stessa. Credere che si abbiano in testa idee precise di trasformazione del capitalismo – non limitate alla riproposizione di schemi vecchi e falliti da decenni – è semplice vaneggiamento.

Questo tipo di sinistra non andrà mai al governo se non nell’ambito di alleanze (pressoché escluse per questa legislatura in Germania) con forze più moderate, che gestiscono la società capitalistica, spesso per conto di frazioni dei dominanti perfino più conservatrici – sul piano della modernizzazione e sviluppo del sistema (che non significa semplice crescita del Pil) – di quelle che appoggiano organizzazioni politiche diversamente etichettate. I verdi poi – il cui leader è il presidente del gasdotto Nabucco, controllato dagli Usa e utilizzato contro gli interessi italo-russi in campo energetico – sono al momento fautori di una politica estera del tutto contraria ad un minimo di autonomia nazionale (ed europea) rispetto al paese preminente ancor oggi nel mondo, sia pure finalmente insidiato da altri poli in rafforzamento.

E’ precisamente su questo punto che le elezioni tedesche sono decisamente negative. La socialdemocrazia prende la più solenne batosta della sua storia del 1949. Contrariamente a quanto qualcuno può pensare, il sottoscritto e gli altri amici del blog (ripensaremarx) non sono contro ogni forza etichettata come sinistra, qualsiasi sia la sua linea politica, in specie in politica estera. Non so se tutto il partito socialdemocratico, ma senz’altro una sua parte fondamentale il cui leader è Schroeder, è per una politica estera, o almeno pezzi decisivi della stessa, orientata ad est, verso la Russia in particolare. L’ex Cancelliere lo fa anche per suoi interessi (non credo però personali, ma di partito o di una sua corrente rilevante)? Si stufino pure i lettori della mia costante e ripetitiva frase, ma risponderò sempre che “mi aspetto la buona carne dall’egoistico interesse del macellaio, non dalla sua benevolenza” (Adam Smith); anche perché la benevolenza è sempre (non spesso, ma sempre) pura ipocrisia di chi persegue suoi interessi ancora più particolari e contrari ad ogni pur minimo vantaggio per la collettività o per la sua maggioranza.

La sconfitta dei socialdemocratici si unisce al successo dei liberali, il partito filoatlantico per eccellenza (assieme ai verdi), cioè il più succube e asservito agli Stati Uniti. Democristiani (assortiti) e liberali hanno, in fatto di seggi soprattutto, la possibilità di governare con una certa tranquillità. Nella coalizione che sembra ormai sicura, la Dc della Merkel, già assai ambigua in politica estera, si è ulteriormente indebolita – secondo un trend continuamente discendente dal 2002 (38%) al 2005 (35) ad oggi (33) – mentre i liberali hanno seguito la strada inversa arrivando al 14%. Salvo imprevisti, che non riesco ad immaginare, la politica tedesca dovrebbe divenire sempre meno autonoma e rafforzerà il già indubbio asservimento degli organismi europei al paese d’oltreatlantico.

Negli ultimi mesi, alcuni fatti hanno mostrato un indebolimento della politica estera italiana per quanto concerne la capacità di mantenere un minimo di indipendenza; quel minimo per cui abbiamo sempre affermato che l’attuale Governo è, almeno sul piano internazionale (e di fronte alla crisi in atto), meno peggiore di quello precedente di Prodi e soprattutto rispetto ad uno possibile in futuro che intendesse recuperare la sinistra o il centro ecc. (usando le solite etichette ormai logore). Se si dovesse continuare lungo la linea involutiva degli ultimi mesi, penso che anche la Russia dovrà rivedere la sua tattica e strategia. Per il momento, mi sembra mostrare grande pazienza con l’Italia perché il suo “fronte occidentale” è assai importante. Se ci si limitasse al semplice discorso di mercato, la Gazprom ha aperti davanti a sé imponenti sbocchi in Cina e India, sempre più affamate di energia. Tuttavia, gli accordi con l’Italia e l’Eni corrispondono, come appena accennato, ad altri interessi di tipo strategico-internazionale. L’economia “pura” (quella degli “economisti scemi”, in realtà disonesti e asserviti ad altre “bande”) non ha alcuna rilevanza; essa deve essere subordinata, e quindi lo è, ai (ri)equilibri internazionali, quelli del multipolarismo in fase di tortuosa avanzata.

Torneremo fra un po’ a discorrere più specificamente di Italia e Russia. Per il momento mi basta ricordare che si stanno restringendo i tempi per svolgere una nostra politica estera minimamente indipendente rispetto agli Usa. Queste elezioni tedesche li hanno ridotti ulteriormente; e il nostro premier sembra divenire, giorno dopo giorno, più “prudente” (leggi: contorto e “accontentatutti”). Non è una buona politica; non ci si scordi però mai chi sta dall’altra parte: pretesi “progressisti” che, con il mito (ipocrita) di Obama, sono pronti a riconsegnarci ai fasti del 92-93, quando ci si giocò quel po’ di autonomia che l’Italia aveva mantenuto grazie all’esistenza del campo sedicente socialista, scomparso nel 1989-91. Dobbiamo (dovremmo) andare oltre Berlusconi; mai però tornare a Franceschini, Bersani, D’Alema e compagnia varia (una gran brutta compagnia!).

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Corso di lingua persiana

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Corso di lingua persiana

Associazione Culturale Iraniana

CORSE ZABANE FARSI

Anjomane farhanghie iranian

Durata del corso

dal 24 Ottobre 2009 al 12 Dicembre 2009

Momoddate cors:Az 24 oktobre 2009 ta 12 desambre 2009

Presentazione del corso: 17 Ottobre ore 10,30

Moareffi cors:17oktobr sate 10,30

Frequenza: ogni sabato mattina

Hozur: har shanbeh sobh

-corso principianti dalle 9,00 alle10,30

-corse ebtedaii az 9,00 ta 10,30

-corso avanzato dalle 10,30 alle 12,00

-corse pishrafteh az 10,30 ta 12

-corso intermedio dalle 12,00 alle 13,30

-corse motavvaset az 12,00 ta 13,30

presso nazde: BibliotecaAmilcar Cabral

del Comune di Bologna

Via khibane San Mamolo 24 ,Tel 051. 581464

Per informazioni contattare Baraye ettelaot ba

328 8165265

Dott.ssa.Zoia Eghtedari tamas beghirid

Centro Amilcar Cabral  – Via San Mamolo 24, 40136 Bologna – tel. 051 581464
fax 051 346448034 –  www.centrocabral.com

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Sergio Romano sul discorso di Ahmadinejad all’ONU

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Fonte: http://www.corriere.it/romano/09-09-29/01.spm

Riguardo all’ intervento di Ahmadinejad e Gheddafi all’ Onu, un lettore scrive che certi personaggi non dovrebbero essere autorizzati a servirsi del proprio seggio per minacciare e calunniare un altro Paese o per attaccare l’ Onu stessa (Corriere, 25 settembre). Io penso invece che per raggiungere la pace qualche volta bisogna dar voce anche al più atroce «nemico». D’ altro canto il muro contro muro non ha mai risolto nessun problema. In ogni caso non dobbiamo dimenticare che per combattere certi soprusi abbiamo un’ arma potentissima, che consiste nell’ abbandonare la piazza quando questi prendono la parola. Come hanno fatto i delegati del nostro Paese nell’ ultima riunione nel Palazzo di Vetro con il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Silvano Stoppa

Caro Stoppa,

Ogni discussione sulle parole di Ahmadinejad all’ Onu dovrebbe cominciare dal testo del discorso.

L’ ho letto nella versione inglese e cerco di riassumerne, molto sommariamente, i punti essenziali. Ahmadinejad ha esordito con alcune riflessioni sul monoteismo, sul ruolo storico dei grandi profeti (Noè, Abramo, Mosè, Gesù e Maometto) per la redenzione dell’ umanità, sull’ importanza delle fede e della spiritualità nelle relazioni internazionali.

Gli accenti ecumenici del discorso sarebbero piaciuti a Giovanni XXIII, il duro giudizio sull’ agnosticismo (una forma di relativismo) dovrebbe essere piaciuto a Benedetto XVI.

Ha detto che i maggiori pericoli, per l’ umanità sono le armi di distruzione di massa e il terrorismo, fra cui in particolare il terrorismo di Stato.

Ha ricordato che Saddam, durante la guerra contro l’ Iran, fu armato dall’ Occidente e impiegò armi chimiche.

Ha affermato che Al Qaeda nacque dal sostegno degli Usa ad alcuni gruppi della resistenza antisovietica e che l’ arsenale nucleare israeliano ha beneficiato della complicità americana.

Ha duramente descritto le vessazioni subite dai palestinesi nella loro terra.

Ha sostenuto che alcuni Paesi cercano d’ impedire ad altri il libero accesso alle tecnologie del progresso.

Ha rivendicato il carattere democratico dell’ Iran: un Paese in cui, dopo la rivoluzione, «si è votato 27 volte».

Ha auspicato un maggiore impegno dell’ Onu per il disarmo e ha chiesto all’ Aiea (Agenzia Internazionale per l’ Energia atomica) di promuovere l’ applicazione dell’ art. IV del Trattato di non proliferazione sul libero accesso dei Paesi firmatari alle tecnologie nucleari.

Ha ripetuto che l’ Iran non vuole armi nucleari, ma che potrebbe, se vi fosse costretto dalle circostanze, riconsiderare la sua politica.

Ha denunciato il «regime sionista di occupazione», ma non ha auspicato la distruzione di Israele e non ha negato la realtà del genocidio ebraico.

Ha dichiarato di essere pronto e negoziare. Alcune delle affermazioni di Ahmadinejad sono contestabili o grossolanamente esagerate.

Ma altre sono vere (la benevolenza degli Usa per l’ Iraq durante le guerra contro l’ Iran) o, come quelle sui palestinesi, riflettono i sentimenti e le convinzioni della grande maggioranza del mondo musulmano.

Le otto delegazioni che hanno abbandonato la sala (tra cui Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Paesi Bassi, Stati Uniti) avrebbero fatto meglio ad ascoltarlo fino in fondo.

Certe forme di diplomazia spettacolo (come l’ interminabile discorso di Gheddafi all’ Onu) sono infantili, demagogiche e, in ultima analisi, inutili.

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Nuova minaccia bellica nel nostro mare australe

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Due giorni fa, la stampa ha sorpreso gli argentini con una pubblicazione nella quale si annunciava che l’Inghilterra ha deciso unilateralmente e precipitosamente di rafforzare la sua forza aerea nella base militare illegalmente occupata dal Regno Unito nell’arcipelago delle Malvine con l’incorporazione di quattro aeronavi da combattimento di ultima generazione, violando in questo modo gli accordi suggellati tra l’Argentina e l’Inghilterra, pubblicamente conosciuti come il “Trattato di Madrid”. Di fronte alla gravità di questi fatti, si è appena assistito a una “tipica” protesta formale rilasciata dalla Cancelleria Argentina. Per tale motivo, un gruppo di ricercatori di Córdoba ha deciso spedire un documento a tutti i legislatori affinché non solo si respinga l’operato della potenza occupante, ma anche perché si sveli all’opinione pubblica il summenzionato accordo. L’America del Sud sta vivendo un rafforzamento delle basi militari in Colombia da parte degli Stati Uniti e dopo il suo rifiuto di presentare il documento stilato da quest’ultimo nella riunione dei Ministri della Difesa dell’UNASUR dove, sembra, che il paese sudamericano non ha nemmeno firmato un’intesa nella quale risulti che non condurrà operazioni belliche oltre la propria frontiera, il che dimostra la pericolosità di queste basi. A ciò dobbiamo aggiungere questa nuova avanzata da parte del paese invasore nei nostri territori. Per questo motivo, di fronte al silenzio degli organi pubblici di sicurezza e difesa della nazione e dei rappresentanti eletti dal popolo, il Centro Studi strategici Sudamericani (CEES) Cba, aderisce e appoggia il documento inviato a tutti i Deputati e Senatori perché si trasmetta a richiesta del Gruppo di Studi Strategici Argentini (GEEA) di Córdoba.

Dott. Carlos Pereyra Mele

MESSAGGIO INVIATO

Córdoba, 23 settembre 2009

Sig.ri rappresentanti della nazione argentina:

Questa lettera giunge tramite posta elettronica prioritaria a tutti i Deputati e i Senatori della nazione. Chi redige la presente è Hugo Rodríguez, cittadino argentino, Carta d’Identità 33.270.037, membro dell’Associazione Belgrano e direttore del Gruppo di Studi Strategici Argentini.

Mediante la presente, vi si comunica che il Regno Unito ha inviato quattro navi aeree da guerra nelle isole Malvine. Questa notizia si trova a disposizione ed è stata diffusa dal giornale inglese “The Sun” (1).

L’Argentina ha firmato il 15 febbraio 1990 a Madrid (Spagna) il noto “Trattato di Madrid”, incostituzionale, poiché non è stato approvato dalla nostra Camera, vale a dire, dall’istituzione che Voi rappresentate. Questo “Trattato” internazionale che ha consegnato la nostra sovranità territoriale al Regno Unito e del quale Vi spediamo copia (si veda archivio allegato N°3), indica:

Allegato I: Sistema Transitorio d’Informazione e di Consultazione Reciproca;

III – Informazione Reciproca sui Movimenti Militari;

I – Le parti forniranno reciprocamente, per via diplomatica e con un preavviso minimo di 25 giorni, informazioni per iscritto riguardo a:

A – Movimenti di forze navali composte di quattro o più navi;

B – Movimenti di forze aeree composte di quattro o più aerei;

Questo Accordo, tuttora vigente, esprime l’obbligo di fornire informazione sui movimenti di quattro o più aerei nella zona contesa con 25 giorni di preavviso. Questa comunicazione non è avvenuta in rapporto a quanto annunciato ieri dal giornale britannico; difatti la prima fonte d’informazione è il quotidiano “The Sun”. Nell’agenzia di notizie TELAM, in quella data, si argomenta che la cancelleria è a conoscenza della situazione e cita: “Fonti ufficiali della Cancelleria argentina sono state informate dell’invio di aerei della Forza Aerea britannica nelle Isole Malvine, hanno deplorato “il nuovo spiegamento britannico”, e hanno aggiunto che questa scelta “è contraria alla Risoluzione 31/49 dell’Assemblea Generale dell’ONU che sollecita le due parti contendenti, riguardo alla sovranità della “Questione delle Isole Malvine”, ad astenersi nell’adottare modifiche unilaterali su tale circostanza”.

Il comportamento del Regno Unito, oltre a essere una grave provocazione nei confronti della Sovranità del popolo argentino e meritare una protesta formale dell’Argentina agli Organismi Internazionali pertinenti, rappresenta un grave inadempimento dell’Accordo firmato con il nostro paese il 15 febbraio 1990.

Per quanto sopra descritto e nell’augurarci di essere stato sufficientemente chiari, vi chiediamo, in quanto nostri rappresentanti, denunciare e abrogare il “Trattato” di Madrid per inadempimento delle disposizioni firmate da parte del Regno Unito.

Persino se prendessimo in considerazione il fatto che il “Trattato” di Madrid sia realmente un Trattato in tutti i suoi aspetti, l’abrogazione è pienamente applicabile perché così lo sancisce la CONVENZIONE DI VIENNA del 1969 nel suo articolo 1° (ratificata dall’Argentina). In seguito si trascrive questo punto:

Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sui Diritti dei Trattati (2)

60. Fine di un trattato o sospensione della sua applicazione come conseguenza della sua violazione.

1.La violazione grave di un trattato bilaterale da una delle parti autorizzerà l’altra di addurre la violazione come causa per dare per concluso il trattato o per sospendere la sua applicazione totalmente o parzialmente.

L’Argentina possiede le prove sufficienti per denunciare e abrogare l’Accordo-Trattato di Madrid per grave inadempimento dello stesso da parte del Regno Unito. È in grado di dichiararlo incostituzionale per il fatto di essere un Accordo con carattere di Trattato Internazionale e per non essere stato approvato dalla stessa Camera. Questa disposizione è presente nell’articolo 75, comma 22 della nostra Costituzione. In difetto, è prevista l’applicazione delle disposizioni della Convenzione di Vienna. Per le ragioni suesposte, vi suggeriamo denunciarlo e abrogarlo.

I giorni 27 e 28 agosto 2009 abbiamo fatto pervenire presso i vostri uffici una lettera informativa concernente il conflitto per la sovranità dei 350 migli nautici della Zona Economica Esclusiva. In quella lettera accenniamo che uno dei ragionamenti che utilizza il Regno Unito per esercitare la sua sovranità è il “Trattato di Madrid”, il quale vi abbiamo suggerito di considerare la sua abrogazione. Rileviamo con la presente l’importanza di procedere con la revoca del “Trattato” di Madrid, del Trattato di Londra, di non ammettere che la Costituzione Europea incorpori (come sta già facendo) il nostro territorio come territorio Europeo di Oltremare e chiedere formalmente alla Cancelleria argentina rendere pubblico questo testo completo della presentazione Argentina di fronte a CONVEMAR-ONU.

In altre parole, sebbene sia necessario compiere un reclamo formale nei confronti del Regno Unito e di fronte agli Organismi Internazionali pertinenti per il gesto di aver inviato 4 aerei da guerra nelle Malvine, non è sufficiente. L’Argentina deve dichiarare nullo il “Trattato” di Madrid per ben due motivi, il primo è per l’inadempimento nel quale è incorso il Regno Unito nel momento in cui non ci ha informato dell’invio delle navi con 25 giorni di preavviso. Il secondo è perché il suddetto “Trattato” Internazionale ha la facciata di un Accordo e non è stato (come lo richiede la nostra costituzione – art.75) approvato dalla Camera.

Conducendo a termine la presente lettera, citiamo la prima disposizione transitoria della Costituzione Nazionale:

“La Nazione Argentina ratifica la sua legittima e imprescrittibile sovranità nei confronti delle Isole Malvine, George del Sud e Sandwich del Sud e gli spazi marittimi e insulari correlati, giacché formano parte integrante del territorio nazionale.

Il recupero di detti territori e il pieno esercizio della sovranità, rispettando il modo di vita dei suoi abitanti e conforme ai principi del diritto internazionale, costituisce un obiettivo permanente e irrinunciabile del popolo argentino.”

Restiamo a vostra disposizione e nell’attesa di una pronta risposta, Vi salutiamo attentamente.

Dott. Hugo Rodríguez
Direttore del Gruppo di Studi Strategici Argentini (GEEA)
Associazione degli Intellettuali Nazionali Manuel Belgrano
hugo.rodriguez@asociacionbelgrano.org

(1)La notizia si trova nel seguente link; http://thesun.co.uk/sol/homepage/news/campaigns/our_boys/article2648901.ece
(2)Trattato di Vienna del 1969. Una copia dello stesso è disponibile in http://www.cajpe.org.pe/rij/bases/Sinternacioanl/convencionviena.htm, pagina della Commissione Andina dei Giuristi.

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Leda Palma, Ingiurie e silenzi

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Continua il ciclo di presentazioni di libri su Palestina e  Medio Oriente presso la sede della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia: Via Baldassarre Orero, 59 (zona Casal Bertone) – Roma

mercoledì 14 ottobre  2009, alle ore 18.00 “Ingiurie e silenzi” di Leda Palma, Edizione Fermenti 2008

Presiede: – Adriana Sabbatini, Associazione “Altri Mondi”
Intervengono:

– Giovanni Franzoni, Comunità Cristiana di Base – S. Paolo

– Bassam Saleh, Per non dimenticare Sabra e Shatila

Letture di  Leda Palma – Intermezzi musicali di Peppe Frana

Conclude: – Yousef Salman, Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia

http:/www.palestinercs.org

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La Democrazia in Medio Oriente

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Pubblichiamo un articolo di Giulio Brigante Colonna, ricordando ai nostri Lettori che la democrazia, in termini geopolitici, ha sempre rappresentato la sovrastruttura delle Potenze marittime. Attualmente essa costituisce la sovrastruttura ideologica ed operativa ad un tempo del cosiddetto sistema occidentale guidato da Washington e Londra.
La “democratizzazione” del Pianeta, infatti, come insegnava il teorico dello scontro di civiltà, Samuel Huntington, nel suo La Terza ondata, si traduce – attraverso le guerre di Clinton e Bush, prima e la diplomazia di Obama , oggi (cfr. il commento di T. Meyssan al discorso del Cairo del presidente Obama) – nella sostanziale espansione degli USA nell’area eurasiatica.
L’introduzione dei “valori democratici” per vie cruente e incruente nelle aree extra occidentali – oltre a evidenziare, ancora una volta, la presunzione occidentale di stampo colonialista, secondo la quale il sistema democratico sarebbe il migliore del mondo, che tutte le popolazioni del Pianeta dovrebbero, prima o poi, adottare – è chiaramente sinergica alla “geopolitica del caos” che gli USA conducono in aree considerate strategiche dal Pentagono, tra cui l’Afghanistan, il Pakistan e l’Iran.

Gli ultimi due anni hanno visto un’ondata di elezioni investire il Medio Oriente, un’area geopolitica storicamente caratterizzata da un deficit di democrazia. Nel febbraio del 2009 si sono svolte le elezioni israeliane e poi hanno seguito Libano e Iran a giugno e l’Afghanistan ad agosto, mentre nel corso del 2008 si sono altresì svolte elezioni in Pakistan ed in Iraq. Questa improvvisa propensione alla legittimazione elettorale fa sorgere qualche interrogativo di ampio respiro: la democrazia si può esportare come qualsiasi prodotto commerciale e ancora, queste elezioni dimostrano che l’area mediorientale è definitivamente democratizzata?

In Occidente la democrazia è considerata la migliore forma di governo che ha portato stabilità, benessere, progresso ed un costante miglioramento delle condizioni di vita per gran parte della popolazione. L’esperienza europea dopo la seconda guerra mondiale è il miglior esempio di democrazia all’opera: da più di cinquant’anni infatti, i Paesi europei vivono insieme in pace e prosperità. Di più, la democrazia ha dimostrato di essere la forma di governo che meglio garantisce i diritti umani. E’ però necessario ricordare che la democrazia è un processo lungo e tortuoso, che inizia ma non finisce con le elezioni ed è per questo che molti dei Paesi sopramenzionati non sono diventati democrazie da un giorno all’altro. Le democrazie compiute hanno sviluppato, negli anni, quelle istituzioni democratiche che garantiscono un corretto funzionamento delle istituzioni. La separazione dei poteri auspicata da Montesquieu, (un sistema giudiziario indipendente che garantisca l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, un parlamento che controlli l’azione del governo), la tutela delle minoranze nonchè forze armate che rispondano al governo sono alcune delle garanzie che garantiscono la vita di ogni cittadino in quelle democrazie fondate sui principi della Rivoluzione Francese. Queste istituzioni che creano i limiti di ogni moderna democrazia si sviluppano nell’arco di molti anni e non possono certamente essere imposte dall’esterno.

Per queste ragioni, fra le nazioni che abbiamo menzionato, Israele è a tutti gli effetti l’unica democrazia compiuta del Medio Oriente, una democrazia giovane, nata poco più di 50 anni fa. Il Libano non soffre di un deficit democratico, quanto della difficoltà a liberarsi dell’influenza straniera che, nel corso degli ultimi 30 anni, ha influenzato gli affari interni dello Stato attraverso l’appoggio alle diverse fazioni politiche creando grande instabilità. I principali attori in Libano sono stati e continuano ad essere la Siria, l’Iran ed Israele.  L’Iraq si sta riprendendo da una dittatura che ha mantenuto il potere attraverso la repressione brutale della maggioranza Sciita e della minoranza separatista Curda. Il Paese sta lentamente recuperando quella società civile che ha sofferto la repressione e gli anni di embargo. Da qualche anno l’Iraq sta sviluppando quelle istituzioni democratiche che sono la chiave per il proprio futuro.

Spostandoci verso l’Asia  si arriva al Pakistan, uno stato che per gran parte della propria esistenza è stato governato da una leadership militare, che ha accentrato il potere senza mai garantire quella trasparenza e alternanza che sono tipiche delle democrazie compiute. La storia del Pakistan è stata segnata dal perenne conflitto con l’India e le proprie decisioni di politica interna ed estera rispecchiano questo conflitto. La società civile pachistana svolge un ruolo rilevante, un esempio emblematico è stata la marcia per reintegrare il Giudice Supremo Iftikhar Muhammad Chaudry che nel 2007 è stato licenziato e messo agli arresti domiciliari dal Presidente Musharraf.

Concentriamoci adesso sulle recentissime elezioni Afghane ed Iraniane e vediamo cosa emerge in termini di sviluppo democratico in questi due Paesi. E’ importante ricordarsi che entrambi i Paesi sono strategicamente molto importanti per la stabilità regionale, caratteristica che li pone sotto l’attento scrutinio della comunità internazionale .

La comunità internazionale è attivamente impegnata nel nation building in Afghanistan. A tal fine, le elezioni del 20 agosto avrebbero dovuto rappresentare un caposaldo a dimostrazione dello sviluppo del Paese secondo linee democratiche. Tuttavia, le elezioni hanno gettato un ombra sull’intero processo elettorale e sulla legittimità del prossimo governo afgano. Qualche segnale positivo si è registrato, soprattutto per quel che riguarda l’affluenza alle urne, in un Paese che sta vivendo sotto la continua minaccia di attacchi da parte degli insorgenti, il dato che si attesterebbe intorno al 38,17%[1] è da considerarsi discreto. Questo numero dimostra la determinazione di tanti afgani a votare nonostante la minaccia di attacchi da parte dei Taliban. La storia di Lai Mohammed è sintomatica: essendo andato a votare il 20 agosto i Taliban lo hanno punito amputandogli orecchie e naso. Quando intervistato il sig. Mohammed ha detto che in futuro andrà di nuovo a votare in quanto suo dovere di cittadino! Queste storie sono frequenti nell’Afghanistan post 2001: cittadini affamati di democrazia che vanno incontro a grandissimi rischi pur di esercitare quelli che sono i propri diritti, come votare o andare a scuola o semplicemente uscire di casa.  L’Afghanistan è tuttavia la prova che non è possibile esportare la democrazia. Ci vorranno diversi anni perché l’Afghanistan sviluppi quelle istituzioni che garantiscano la vita democratica dei cittadini.

L’Iran è stato formalmente una Monarchia Costituzionale fino alla Rivoluzione Islamica che, nel 1979 ha imposto uno stato teocratico, centralizzato e altamente controllato. Il Paese che vantava istituzioni democratiche come il parlamento (risalente al 1906) ha sviluppato, nonostante la censura di Stato, forme limitate di democrazia come il suffragio universale ed elezioni con candidati multipli. Con queste premesse non ci si poteva aspettare grosse novità dalle elezioni dello scorso giugno. Con i candidati attentamente selezionati dalla Guardia Repubblicana nessun outsider poteva intromettersi in quello che era un discorso limitato a pochi prescelti. Tuttavia, quello che è successo dopo le elezioni è politicamente molto rilevante e ci consente di dare uno sguardo nelle dinamiche interne alla Repubblica Islamica. I brogli in favore di Ahmadinejad hanno scatenato un’ondata di proteste che ha preso il nome di “Rivoluzione verde”. Con una popolazione complessiva di 66 milioni[2], di cui due terzi sotto i 30 anni, un’alfabetizzazione del 77% e 23 milioni di utenti internet, la protesta si è presto divulgata fra i giovani, diventando una vera minaccia per il regime, che ha dovuto mobilitare le milizie paramilitari Basij per riportare l’ordine.

La censura delle autorità ed il loro controllo sulla società non sono riusciti ad evitare che un popolo dominato da giovani istruiti e ben collegati (con l’uso di internet) mostrassero al regime la loro sete di cambiamento e di democrazia. Non è forse questo il valore ultimo della democrazia, il potere alla gente?

E allora per tornare alla domanda iniziale, questa ondata di elezioni può significare che il Medio Oriente si sta democratizzando? Direi di no. Le elezioni hanno dimostrato, una volta di più, come  siano un potente mezzo in mano ai cittadini che possono esternare il loro dissenso determinando reazioni incontrollabili anche la dove i risultati sono influenzati dai regimi.

L’Amministrazione Bush ha inseguito una politica mirata a portare la democrazia in Medio Oriente. A tal fine, i regimi mediorientali sono stati fortemente incoraggiati a tenere elezioni ed aprire i loro sistemi politici allo scrutinio degli elettori. Questo obiettivo lodevole e sacrosanto è stato tuttavia macchiato dalla politica dell’”Asse del Male” che ha portato, nel 2003, al cambio di regime in Iraq. Anche se è indubbio che molti iracheni stiano meglio adesso che sotto il regime di Saddam Hussein, la guerra del 2003 ha evidenziato i costi di questa politica in termini di violenza e destabilizzazione regionale. Costi che sono poi notevolmente aumentati per la mancanza di un impegno di nation building di lungo periodo.

Con l’arrivo di Barack Obama l’approccio USA al Medio Oriente è cambiato, diventando più pragmatico. Durante il suo intervento all’Università del Cairo lo scorso marzo, Obama ha chiarito l’appoggio americano per quei valori fondamentali per cui “ogni persona ambisce alla libertà di parola, la possibilità di scegliere da chi si è governati, lo stato di diritto, un governo che non ruba alla gente e le cui politiche siano trasparenti e la libertà di vivere come uno vuole. Questi non sono solo valori Americani, sono diritti umani ed è per questo che li sosterremo dovunque.”[3]

Questo tipo di pressione può innescare risvolti positivi in quelle società chiuse e governate da regimi dispotici. Tuttavia, questo non significa che la democrazia può essere esportata e applicata alle diverse realtà rappresentate da Iraq, Libano, Israele, Iran, Pakistan e Afghanistan. Quello che l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare possono fare è aiutare questi Paesi a sviluppare quelle istituzioni democratiche che rendono le società aperte, tenendo presente che questi processi sono lunghi e che non possono essere imposti con la forza.

Quando si impongono elezioni e processi democratici i risultati possono essere destabilizzanti. Un esempio è stata la pressione USA su Mahmoud Abbas (Presidente dell’ANP) per far svolgere  le elezioni parlamentari del 2006 nell’Autorità Nazionale Palestinese. Le elezioni tenute in assenza di istituzioni democratiche e in una nazione che non è ancora uno Stato hanno portato alla vittoria di Hamas. La conseguente impossibilità di quest’ultimo di formare un governo in coabitazione con Fatah ha innescato una serie di scontri che sono sfociati nella scissione dell’ANP (nel 2007). Dopo due anni e numerosi negoziati la situazione attuale vede la netta contrapposizione tra Hamas e Fatah con il primo in controllo di Gaza ed il secondo della Cisgiordania. L’aspirazione palestinese a diventare uno stato non ha tratto beneficio da questa scissione.

Le elezioni iraniane evidenziano quanto sia labile il confine fra le politiche di regime change e di engagement. Decidendo di ingaggiare la leadership Iraniana, Obama ha abbandonato il proprio sostegno ai valori che hanno ispirato la protesta dei giovani iraniani contro il proprio regime. Anche se da un punto di vista morale questa scelta risulta incoerente, la nuova politica è la migliore garanzia per i risultati di lungo periodo. Come si è visto con l’Iraq nel 2003, una politica mirata al cambio di regime inevitabilmente porta ad un congelamento delle relazioni, a maggiori tensioni regionali ed in ultima istanza alla guerra. Anche se tutti vorremmo che il Medio Oriente fosse governato in democrazia, la democratizzazione è un processo che richiede tempo e la stabilità nel breve periodo risulta essere più importante.

Giulio Brigante Colonna è analista di geopolitica per l’area del Medio Oriente allargato. Ha conseguito un BA in International Affairs ed un Master in Relazioni Internazionali e Studi Strategico Militari presso il Centro Alti Studi per la Difesa.


[1] http://www.argoriente.it/_modules/download/download/afghanistan/rapporti/afghanistan-10-IT.pdf

[2] Dati dal: CIA World Factbook: https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/ir.html

[3] US President Barack Obama speaking at Cairo University on the 4th of June 2009.

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L’inevitabile multipolarismo

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Dopo il precedente articolo (Dove va il mondo?) che prendeva spunto dalle dichiarazioni di Putin (riportate in una nota di Jean Jeronimo in Où va la Russie ? Moscou, à la recherche d’une identité post-soviétique) circa la decisività della spinta nella sfera politica per la rinascita e per il ritorno della Russia sul palcoscenico mondiale (riflessione che, peraltro, ci era servita, per fornire un’ interpretazione meno superficiale di quanto viene celato dietro il paravento dello scontro di civiltà)[1] vorremmo segnalare un altro lavoro, sempre di un analista francese, che riporta concetti cruciali, sulla presente fase geopolitica, sui quali anche noi abbiamo spesso insistito.

Le riflessioni in questione, trascritte nel sito geostrategie.com, sono a firma di Aymeric Chauprade ed il titolo del pezzo è già di per sé esplicativo:  La Russie, obstacle majeur sur la route de « l’Amérique-monde » (La Russia, principale ostacolo sulla strada dell’America-mondo).

La tesi principale avanzata dall’autore è quella secondo cui gli Usa, dopo l’11 settembre 2001, non sono stati in grado di realizzare il proprio progetto di egemonismo integrale, per merito della Russia, la quale difendendo il proprio spazio vitale, coincidente con l’heartland, ha dimostrato al mondo che la fase unipolare, a guida indiscussa di una sola superpotenza, è definitivamente tramontata e non potrà più essere realizzata nei termini in cui era stata concepita dagli strateghi americani.

La Russia ha anche comprovato all’Europa che senza un’intesa preventiva con essa sul piano energetico i livelli di sviluppo tecnologico e industriale del Vecchio Continente saranno a rischio per il prossimo futuro, mentre è solo da una mutua cooperazione nei diversi ambiti sociali (e, quindi non esclusivamente, in quelli commerciali) che i partners dell’est e dell’ovest potranno proiettarsi, quali punti di snodo cruciali, nella riconfigurazione degli equilibri mondiali, inevitabilmente tendenti al multipolarismo. L’Europa sembra però non aver compreso la direzione di questi cambiamenti epocali e si ostina a seguire gli Stati Uniti nel loro progetto unipolare, ormai fallimentare, che dal lato europeo porterà ancora svantaggi politici, crisi economiche e il rischio di spingere un partner fondamentale, qual è appunto diventata la Russia, a guardare più verso Oriente che in direzione dell’occidente.

Chauprade rammenta che uno degli autori classici della geopolitica, H. Mackinder, imperniava il suo impianto teorico su una nozione chiave: quella secondo cui “le grandi dinamiche geopolitiche del pianeta si articolavano intorno al cuore del mondo (heartland), l’Eurasia”.

A sua volta, quest’ultima aveva come suo pivot centrale la Russia, nazione che dal punto di vista geostrategico, ha sempre giocato ad est un ruolo paragonabile a quello Germania in Europa. Per tale ragione solo neutralizzando Mosca diventava possibile controllare l’intera Eurasia ed esprimere un controllo assoluto su tutta l’area: “La théorie de Mackinder nous rappelle deux choses que les thalassocraties anglo-saxonnes n’ont jamais oubliées : il n’y a pas de projet européen de puissance (d’Europe puissance) sans une Allemagne forte et indépendante (or l’Allemagne reste largement sous l’emprise américaine depuis 1945) ; il n’y pas d’équilibre mon- dial face au mondialisme américain sans une Russie forte[2].”

Senza dubbio una Russia forte, politicamente indipendente ed economicamente stabile, impedisce alla potenza centrale americana di dispiegare il suo disegno di dominio incontrastato sul pianeta, facendo traballare la sua visione messianica di iperpuissance con un destino manifesto: “L’Amérique veut l’Amérique-monde; le but de sa politique étrangère, bien au- delà de la seule optimisation de ses intérêts stratégiques et économiques du pays, c’est la transformation du monde à l’image de la société américaine. L’Amérique est messianique et là est le moteur intime de sa projection de puissance. En 1941, en signant la Charte de l’Atlantique, Roosevelt et Churchill donnaient une feuille de route au rêve d’un gouvernement mondial visant à organiser une mondialisation libérale et démocratique. Jusqu’en 1947, l’Amérique aspira à la convergence avec l’URSS dans l’idée de former avec celle-ci un gouvernement mondial, et ce, mal- gré l’irréductibilité évidente des deux mondialismes américain et soviétique. Deux ans après l’effondrement européen de 1945, les Américains comprirent qu’ils ne parviendraient pas à entraîner les Soviétiques dans leur mondialisme libéral et ils se résignèrent à rétrécir géographiquement leur projet : l’atlantisme remplaça pro- visoirement le mondialisme.”[3]

Pertanto, all’indomani della caduta della cortina di ferro e del sistema socialista che dietro di questa, in isolamento dal resto del mondo, aveva stentato a svilupparsi col suo modello politico di centralizzazione statale e di economia pianificata (nulla a che vedere con il proclamato comunismo degli esordi rivoluzionari che avrebbe dovuto realizzare il sogno dell’uguaglianza sociale e della fine dello sfruttamento capitalistico) gli statunitensi sono tornati a riproporre la loro primigenia visione assolutistica di un mondo interamente sottoposto al giogo della loro autorità politica, economica, culturale, e militare.

Ma queste pretese egemoniche ammantate da un destino manifesto (Manifest Destiny) sono durate, in termini storici, l’espace d’un matin dimostrando l’eccesso di velleitarismo che si nascondeva nelle dottrine suprematiste di una nazione che nell’ultimo scorcio del XX secolo aveva realmente creduto di poter annichilire il movimento della storia.

In questa chiave fanatica vanno anche lette le fantomatiche emergenza mondiali relative all’importazione della democrazia e al terrorismo islamico, con il suo corteggio di organizzazioni internazionali dell’odio che ne incarnano il disegno, vedi Al Qaeda: “La guerre contre l’islamisme n’est que le paravent officiel d’une guerre beaucoup plus sérieuse : la guerre de l’Amérique contre les puissances eurasiatiques.”[4]

Ma il dilemma americano non ha solo la faccia fiera del rigenerato establishment russo che governa un’estensione territoriale quasi-continentale: “Après la disparition de l’URSS, il est apparu clairement aux Américains qu’une puissance continentale, par la combinaison de sa masse démographique et de son potentiel industriel, pouvait briser le projet d’Amérique-monde : la Chine. La for- midable ascension industrielle et commerciale de la Chine face à l’Amérique fait penser à la situation de l’Allemagne qui, à la veille de la Première Guerre mondiale, rattrapait et dépassait les thalassocraties anglo-saxonnes. Ce fut la cause première de la Première Guerre mondiale”[5].

Per quanto, geopoliticamente, la Cina appaia al momento più arretrata della Russia, nel senso che la sua strategia è fondamentalmente basata su un più ristretta rappresentazione economica – penetrazione e conquista dei mercati esteri accreditandosi quale “fabbrica del mondo” – il possibile saldamento di questo fattore con una più ampia visione (geo)politica impensierisce oltremodo i decisori statunitensi: “Si la Chine se hisse au tout premier rang des puissances pensent les stratèges américains, par la combinaison de sa croissance économique et de son indépen- dance géopolitique, et tout en conservant son modèle confucéen à l’abri du démo- cratisme occidental, alors c’en est fini de l’Amérique-monde. Les Américains peu- vent renoncer à leur principe de Destinée manifeste (Principle of Manifest Destiny) de 1845 ainsi qu’au messianisme de leurs pères fondateurs, fondamentalistes bi- blistes ou franc-maçons[6].”

Quando il socialismo sovietico si è de-realizzato gli americani si sono liberati di un fardello ingombrante posto sul loro cammino biblico di potenza predestinata ma hanno dovuto rapidamente concentrare le proprie energie sul contenimento della Cina. Come dice Chauprade gli statunitensi, memori degli insegnamenti di Mackinder, dopo aver distrutto le aspirazioni eurasiatiche della Germania e poi quelle dei russi, dovevano adesso fronteggiare e debellare quelle cinesi. Questi argomenti non potevano essere rivelati tal quali alla propria opinione pubblica né, tanto meno, ci si poteva aspettare un’adesione ai piani americani da parte degli alleati europei dichiarando apertamente le finalità strategiche perseguite. Per queste motivazioni sono state enfatizzate problematiche reali ma che fino a quel momento avevano avuto al massimo una dimensione regionale: “La guerre humanitaire et la guerre contre le terrorisme seraient les nouveaux prétextes servant à masquer les buts réels de la nouvelle grande guerre eurasiatique : la Chine comme cible, la Russie comme condition pour emporter la bataille. La Chine comme cible parce que seule la Chine est une puissance capable de dépasser l’Amérique dans le rang de la puissance matérielle à un horizon de vingt ans. La Russie comme condition parce que de son orientation stratégique découlera largement l’organisation du monde de demain : unipolaire ou multipolaire[7]”.

Individuata la complessiva strategia americana se ne possono analizzare adesso i singoli segmenti. Secondo l’analista francese gli americani starebbero puntando a:

– compattare un blocco transatlantico da spingere fino alle frontiere della Russia e sul lato occidentale della Cina

– stringere d’assedio la Cina controllandone le fonti di approvvigionamento energetico dalle quali dipendono le sorti del suo sviluppo economico.

– accerchiare l’impero di mezzo grazie ad alleanze con i suoi avversari secolari (indiani, vietnamiti, coreani, giapponesi, taiwanesi, etc.).

– indebolire l’equilibrio tra le grandi potenze nucleari con lo sviluppo dello scudo antimissile che, tuttavia, Obama al momento dice di non voler più impiantare (ma si tratta solo di un ripiegamento congiunturale).

– strumentalizzare i separatismi manifesti o potenziali nei diversi contesti nazionali (dalla Serbia, alla Russia, alla Cina, fino all’Indonesia e, ovviamente, al Medio-oriente arabo).

Finché al potere in Russia restava insediata la casta oligarchica eltsiniana gli americani hanno davvero sperato di poter dare forma a quell’alleanza, ad essi del tutto favorevole, che da Vladivostok arrivava fino a Vancouver, finalizzata a fortificare il loro assoluto ed indiscusso monocentrismo, secondo quanto auspicato dal Presidente Bush senior. Per questo gli americani invece di smantellare e rinunciare ai precedenti assetti militari, all’indomani della dissoluzione dell’URSS, hanno mantenuto e rafforzato la Nato, nonostante la funzione di quest’organizzazione fosse palesemente venuta meno con il disgregamento del patto di Varsavia e dei paesi che lo avevano costituito: “L’extension du bloc transatlantique est la première dimension du grand jeu eurasiatique. Les Américains ont non seulement conservé l’OTAN après la disparition du Pacte de Varsovie mais ils lui ont redonné de la vigueur : premièrement l’OTAN est passé du droit international classique (intervention uniquement en cas d’agression d’un Etat membre de l’Alliance) au droit d’ingérence. La guerre contre la Serbie, en 1999, a marqué cette transition et ce découplage entre l’OTAN et le droit international. Deuxièmement, l’OTAN a intégré les pays d’Europe centrale et d’Europe orientale. Les espaces baltique et yougoslave (Croatie, Bosnie, Kosovo) ont été intégrés à la sphère d’influence de l’OTAN. Pour étendre encore l’OTAN et resserrer l’étau autour de la Russie, les Américains ont fomenté les révolutions colorées (Géorgie en 2003, Ukraine en 2004, Kirghizstan en 2005), ces retourne- ments politiques non violents, financés et soutenus par des fondations et des ONG américaines, lesquelles visaient à installer des gouvernements anti-russes. Une fois au pouvoir, le président ukrainien pro-occidental demanda naturellement le départ de la flotte russe des ports de Crimée et l’entrée de son pays dans l’OTAN. Quant au président géorgien il devait, dès 2003, militer pour l’adhésion de son pays dans l’OTAN et l’éviction des forces de paix russes dédiées depuis 1992 à la protection des populations abkhazes et sud-ossètes[8]”. Il sogno Americano s’infrange definitivamente però con la salita al potere di una nuova classe dirigente in Russia. Su questo tema e sulla riorganizzazione politica del gigante dell’est ho scritto su un articolo che uscirà prossimamente per la rivista Eurasia. Nonostante sappiamo benissimo che certe dinamiche sono di tipo oggettivo e nascono all’interno di determinate congiunture storiche occorre, tuttavia, dare il giusto risalto ai portatori soggettivi di questi “sviluppi”, cioè agli uomini che si fanno interpreti di tali cambiamenti radicali: “En 2000, un événement considérable, peut-être le plus important depuis la fin de la Guerre froide (plus important encore que le 11 septembre 2001) se produisit pourtant : l’accession au pouvoir de Vladimir Poutine. L’un de ces retourne- ments de l’histoire qui ont pour conséquences de ramener celle-ci à ses fondamen- taux, à ses constantes. Poutine avait un programme très clair : redresser la Russie à partir du levier énergétique. Il fallait reprendre le contrôle des richesses du sous-sol des mains d’oligarques peu soucieux de l’intérêt de l’Empire. Il fallait construire de puissants opérateurs pétrolier (Rosneft) et gazier (Gazprom) russes liés à l’Etat et à sa vision stratégique. Mais Poutine ne dévoilait pas encore ses intentions quant au bras de fer américano-chinois. Il laissait planer le doute. Certains, dont je fais d’ailleurs partie puisque j’analysais à l’époque la convergence russo-américaine comme passagère et opportune (le discours américain de la guerre contre le terrorisme interdisait en effet momentanément la critique américaine à propos de l’action russe en Tchétchénie), avaient compris dès le début que Poutine reconstruirait la politique indépendante de la Russie ; d’autres pensaient au contraire qu’il serait occidentaliste. Il lui fallait en finir avec la Tchétchénie et reprendre le pétrole. La tâche était lourde. Un symp- tôme évident pourtant montrait que Poutine allait reprendre les fondamentaux de la grande politique russe : le changement favorable à l’Iran et la reprise des ventes d’armes à destination de ce pays ainsi que la relance de la coopération en matière de nucléaire civil[9]”. In sostanza, il corso politico seguito dal nuovo establishment russo ha smantellato le ambizioni eurasiatiche degli yankees. Questa sentenza storica segna la fine della strategia unipolare statunitense che non può concretarsi senza l’integrazione di Mosca nel famigerato blocco transatlantico. Quindi, nessun blocco intercontinentale a guida Usa nessuna possibilità di sbarrare il passo alla Cina e alle sue alleanze ad est. E’ questo l’ingrediente fondamentale che ha esacerbato lo squilibrio e l’instabilità mondiale favorendo l’entrata nella fase multipolare. Sebbene dopo l’11 settembre gli americani hanno creduto ancora di potersi riposizionare sullo scacchiere eurasiatico, i loro piani sono nuovamente falliti nel giro di un lustro: “Le 11 septembre 2001 offrit pourtant l’occasion aux Américains d’accélérer leur programme d’unipolarité. Au nom de la lutte contre un mal qu’il avaient eux- mêmes fabriqués, ils purent obtenir une solidarité sans failles des Européens (donc plus d’atlantisme et moins « d’Europe puissance »), un rapprochement conjonctu- rel avec Moscou (pour écraser le séparatisme tchétchéno-islamiste), un recul de la Chine d’Asie centrale face à l’entente russo-américaine dans les républiques musul- manes ex-soviétiques, un pied en Afghanistan, à l’ouest de la Chine donc et au sud de la Russie, et un retour marqué en Asie du Sud-est. Mais l’euphorie américaine en Asie centrale ne dura que quatre ans. La peur d’une révolution colorée en Ouzbékistan poussa le pouvoir ouzbek, un moment tenté de devenir la grande puissance d’Asie centrale en faisant contrepoids au grand frère russe, à évincer les Américains et à se rapprocher de Moscou. Washington per- dit alors, à partir de 2005, de nombreuses positions en Asie centrale, tandis qu’en Afghanistan, malgré les contingents de supplétifs qu’elle ponctionne à des Etats européens incapables de prendre le destin de leur civilisation en main, elle continue de perdre du terrain face à l’alliance talibano-pakistanaise, soutenue discrètement en sous-main par les Chinois qui veulent voir l’Amérique refoulée d’Asie centrale. Les Chinois, de nouveau, peuvent espérer prendre des parts du pétrole kazakh et du gaz turkmène et construire ainsi des routes d’acheminement vers leur Turkestan (le Xinjiang). Pékin tourne ses espoirs énergétiques vers la Russie qui équilibrera à l’avenir ses fournitures d’énergie vers l’Europe par l’Asie (non seulement la Chine mais aussi le Japon, la Corée du Sud, l’Inde…)[10]”.

Infine, possiamo tornare alla nostra asserzione iniziale: la Russia è certamente la nazione chiave per il dispiegamento del multipolarismo in virtù di una duplice oggettività, “posizionale” e politica, che al momento, consente al colosso dell’est di esprimere al meglio la propria potenza. Ma è, innanzitutto, la politica putiniana, fondata sulla leva energetica, che ha riportato Mosca agli antichi fasti sospingendola nelle alleanze antiegemoniche che coinvolgono ormai tanto l’America Latina (Venezuela) che il Medio-Oriente (Iran): “Cet axe est le contrepoids au pétrole et au gaz arabes conquis par l’Amérique. Washington voulait étouffer la Chine en contrôlant l’énergie. Mais si l’Amérique est en Arabie Saoudite et en Irak (1ère et 3e réserves prouvées de pétrole), elle ne contrôle ni la Russie, ni l’Iran, ni le Venezuela, ni le Kazakhstan et ces pays bien au contraire se rapprochent. Ensemble, ils sont décidés à briser la suprématie du pétrodollar, socle de la centralité du dollar dans le système économique mondial (lequel socle permet à l’Amérique de faire supporter aux Européens un déficit budgétaire colossal et de renflouer ses banques d’affaires ruinées)[11].”

Certo, la Casa Bianca (chiunque assurga al potere, sia esso democratico o repubblicano, bianco, nero giallo ecc. ecc.) non resterà a guardare lo svilupparsi di una situazione ad essa totalmente sfavorevole che rischia d’infrangere i suoi sogni egemonici o di ridimensionare la portata geopolitica delle sue aspirazioni. Per questo la pressioni sulla Russia si faranno sempre più aspre nonostante qualche apparente apertura, come ultimamente verificatosi sul sistema ABM. Tuttavia, a lungo termine, l’aggressività americana è destinata a ripresentarsi e i prodromi di questa sono già visibili nella periferia prossima russa. Queste ipotesi sono confermate, ad esempio, dallo schieramento di truppe in Georgia e dall’ingerenza crescente negli affari di molti paesi del Caucaso. Al momento il progetto più avanzato resta quello dell’installazione di due basi terrestri e una navale nel paese governato dal quisling Shakasvili. Tutto ciò sul piano militare. Ma anche sul piano geoconomico e commerciale gli americani non restano in “surplace”: “Les Américains vont tenter de développer des routes terrestres de l’énergie (oléoducs et gazoducs) alternatives à la toile russe qui est en train de s’étendre sur tout le continent eurasiatique, irri- guant l’Europe de l’Ouest comme l’Asie. [12]”.

E l’Europa come si comporta di fronte al rimescolamento degli assetti geopolitici di questa fase? Essa agisce in maniera scoordinata e quando decide di muoversi unitariamente è solo per impedire ai paesi membri di approfondire troppo i loro rapporti con Mosca per non irritare Washington. E’ quello che si è verificato, solo per citare un caso emblematico, allorché alcune imprese energetiche europee hanno stretto accordi di partenariato con le omologhe russe per gli approvvigionamenti e per l’installazione di gasdotti. Ne sa qualcosa la nostra Eni, sottoposta ad attacchi vergognosi e pretestuosi da parte delle burocrazie europee (ma purtroppo anche da parte dei poteri decotti nazionali italiani e delle loro “sponde” partitiche) che non vedono di buon occhio il SouthStream, sistema di pipelines gasiere concorrente a quello filoamericano Nabucco, sostenuto proprio dall’Ue per mero servilismo pro-Usa, essendo stata ampiamente dimostrata la non profittabilità economica di quest’ultimo progetto[13].

Ma non è sicuramente questa la via che permetterà al Vecchio Continente di poter ancora contare qualcosa nella fase multipolare in dispiegamento:“Dans ces conditions et alors que la multipolarité se met en place, les Européens feraient bien de se réveiller. La crise économique profonde dans laquelle ils semblent devoir s’enfoncer durablement conduira-t-elle à ce réveil ? C’est la conséquence positive qu’il faudrait espérer des difficultés pénibles que les peuples d’Europe vont endurer dans les décennies à venir[14].”


[1] Il c.d. scontro di civiltà sarebbe più correttamente da intendersi quale mera proiezione ideologica e “fenomenica” di un sotteso e ben più sostanziale trapasso epocale derivante dal depotenziamento di un tipo particolare di formazione sociale, quella dei funzionari privati del capitale di matrice americana, a vantaggio di una diversa tipologia riproduttiva ancora in gestazione.

[2] La teoria di Mackinder ci ricorda due cose che le talassocrazie anglosassoni non hanno mai dimenticato: non ci sono progetti europei di potenza (di Europa potente) senza una Germania forte ed indipendente (ma la Germania resta in gran parte sotto l’influenza americana dal 1945); non ci sono equilibri mondiali di fronte al mondialismo americano senza una Russia forte.

[3] L’America vuole l’America-mondo; lo scopo della sua politica estera, bene al di là della sola ottimizzazione dei suoi interessi strategici ed economici del paese, è la trasformazione del mondo a immagine della società americana. L’America è messianica ed è questo l’intimo motore della sua proiezione di potenza. Nel 1941, firmando la Carta dell’Atlantico, Roosevelt e Churchill davano un itinerario al sogno di un governo mondiale finalizzato ad organizzare una mondializzazione liberale e democratica. Fino al 1947, l’America aspirò alla convergenza con l’URSS nell’ide di formare con questa un governo mondiale, e ciò, malgrado l’irriducibilità evidente dei due mondialismi americano e sovietico. Due anni dopo il crollo europeo del 1945, gli americani capirono che non sarebbero giunti a insinuare i sovietici nel loro mondialismo liberale e si rassegnarono a restringere geograficamente il loro progetto: l’atlantismo rimpiazzerà provvisoriamente il mondialismo.

[4] La guerra contro l’islamismo è soltanto il paravento ufficiale di una guerra molto più seria: la guerra dell’America contro le potenze eurasiatiche.

[5] Dopo la scomparsa dell’URSS, è sembrato chiaramente agli americani che una potenza continentale, con la combinazione della sua massa demografica e del suo potenziale industriale, poteva rompere il progetto di America-mondo: la Cina. Il formidabile progresso industriale e commerciale della Cina di fronte all’America fa pensare alla situazione della Germania che, alla vigilia della Prima Guerra mondiale, recuperava e superava le talassocrazie anglosassoni. Fu la causa principale dello Prima Guerra mondiale.

[6] Se la Cina si issa al rango di superpotenza, pensano gli strateghi americani, grazie alla combinazione della sua crescita economica e della indipendenza geopolitica, e pur conservando il suo modello confuciano al riparo dal democratismo occidentale, allora è finita per l’America-mondo. Gli americani possono rinunciare al principio del Destino manifesto (Principle of Manifest Destiny) del 1845 e al messianismo dei loro padri fondatori, fondamentalisti biblisti o franc-maçons [vedi wikipedia alla voce corrispondente]”.

[7] La guerra umanitaria e la guerra contro il terrorismo sono i nuovi pretesti che servono a mascherare gli scopi reali delle nuova grande guerra eurasiatica: la Cina come obiettivo, la Russia come condizione per vincere la battaglia. La Cina come obiettivo perché solo la Cina è una potenza capace di scalzare l’America dai ranghi di potenza mondiale in un orizzonte di venti anni. La Russia come condizione perché dal suo orientamento strategico deriverà in gran parte l’organizzazione del mondo di domani: unipolare o multipolare.

[8] L’estensione del blocco transatlantico è la prima dimensione del grande gioco eurasiatico. Gli Americani hanno non soltanto conservato la NATO dopo la scomparsa del Patto di Varsavia ma gli hanno ridato vigore: primieramente la NATO è passata dal diritto internazionale classico (intervento soltanto in caso d’aggressione di uno Stato membro dell’alleanza) al diritto di ingerenza. La guerra contro la Serbia, nel 1999, ha segnato questa transizione e questo disaccoppiamento tra la NATO ed il diritto internazionale. In secondo luogo la NATO ha integrato i paesi dell’Europa centrale e dell’Europa orientale. Gli spazi Baltici ed iugoslavi (Croazia, Bosnia, Kosovo) sono stati integrati nella sfera  d’influenza della NATO. Per espandere ancora la NATO e attorniare la Russia, gli americani ha fomentato le rivoluzioni colorate (Georgia nel 2003, Ucraina nel 2004, Kirghisistan nel 2005), questi sovvertimenti politici non violenti, finanziati e sostenuti da fondazioni e ONGS americane, che miravano ad installare governi anti-russi. Una volta al potere, il presidente ucraino pro-occidentale chiese naturalmente la partenza della flotta russa dai porti della Crimea e l’entrata del suo paese nella NATO. Quanto al presidente georgiano egli spinse, dal 2003, per l’adesione del suo paese nella NATO e lo sfratto delle forze di pace russa dedicate dal 1992 alla protezione delle popolazioni dell’Abkhazia. e dell’Ossezia del sud.

[9] Nel 2000, un avvenimento considerevole, può darsi il più importante dalla fine della guerra fredda (più importante ancora che l’11 settembre 2001) si determinò, tuttavia: l’accesso al potere di Vladimir Putin. Uno di quei rivolgimenti della storia che hanno per conseguenza di riportare questa ai suoi fondamentali, alle sue costanti. Putin aveva un programma molto chiaro: raddrizzare la Russia a partire dalla leva energetica. Occorreva riprendere il controllo delle ricchezze del sottosuolo delle mani degli oligarchi poco preoccupati degli interessi dell’impero. Occorreva costruire forti operatori petroliferi (Rosneft) e gasieri (Gazprom) legati allo stato russo e alla sua visione strategica. Ma Putin non svelò ancora le sue intenzioni sul braccio di ferro americano-cinese. Egli lasciava crescere il dubbio. Alcuni, di cui faccio del resto parte poiché analizzavo all’epoca la convergenza russo-americana come passeggera ed opportuna (il discorso americano della guerra contro il terrorismo interdiva infatti momentaneamente la critica americana a proposito dell’azione russa in Cecenia), avevano compreso dall’inizio che Putin avrebbe ricostruito la politica indipendente della Russia; altri pensavano al contrario che sarebbe stato occidentalista. Gli occorreva chiudere con Cecenia e riprendere il petrolio. Il compito era difficile. Un sintomo chiaro tuttavia mostrava che Putin rprendeva i fondamentali della grande politica russa: il cambiamento favorevole verso l’Iran e la ripresa delle vendite di armi verso questo paese e il rilancio della cooperazione in materia di nucleare civile.

[10] L’11 settembre 2001 offrì tuttavia l’occasione agli americani di accelerare il loro programma unipolarista. In nome della lotta contro un male che aveva loro stessi fabbricato, poterono ottenere una solidarietà senza falle dagli europei (dunque più atlantismo e meno “Europa potente„), un ravvicinamento congiunturale con Mosca (per schiacciare il separatismo ceceno-islamista), un arretramento della Cina dall’Asia centrale a fronte dell’intesa russo-americana negli repubbliche musulmane ex-sovietiche, un piede in Afganistan, a ovest della Cina dunque ed a sud della Russia, ed un ritorno significativo nel Sud-est asiatico. Ma l’euforia americana in Asia centrale durò soltanto quattro anni. Il timore di una rivoluzione colorata in Uzbekistan spinse il potere uzbeko, per un momento tentato di diventare la grande potenza dell’Asia centrale facendo contrappeso al grande fratello russo, ad escludere gli americani ed à avvicinarsi a Mosca. Washington perse allora, a partire dal 2005, numerose posizioni in Asia centrale, mentre in Afganistan, malgrado i contingenti di suppletivi che spilla a stati europei incapaci di prendere in  mano il destino della loro civiltà, continua a perdere terreno di fronte all’alleanza talibano-pakistana, sostenuta discretamente sotto banco da parte dei cinesi che vogliono vedere l’America respinta dell’Asia centrale. I cinesi, nuovamente, possono  prendere parte del petrolio kazako e del gas turkmeno e costruire così vie d’istradamento verso il loro Turkestan (Xinjiang). Pechino rivolge le sue speranze energetiche verso la Russia che equilibrerà in futuro le sue forniture energetiche dall’Europa per l’Asia (non soltanto la Cina ma anche il Giappone, la Corea del Sud, l’India…)

[11] Quest’asse è il contrappeso al petrolio ed al gas arabi conquistati dall’America. Washington voleva soffocare la Cina controllando l’energia. Ma se l’America è in Arabia Saudita ed in Iraq (1° e 3° per riserve comprovate di petrolio), essa non controllale né la Russia, né l’Iran, né il Venezuela, né il Kazakhstan e questi paesi al contrario si avvicinano. Insieme, sono decisi à rompere la supremazia del petrodollaro, base della centralità del dollaro nel sistema economico mondiale (la quale base permette all’America di fare sopportare agli europei un deficit colossale e salvare le sue banche d’affari fallite).

[12] Gli americani stanno tentando di sviluppare strade dell’energia (oleodotti e gasdotti) alternativi alla trama russa che si sta estendendo su tutto il continente eurasiatico, “irrorando” anche l’Europa occidentale e l’Asia.

[13] A tal proposito riporto in nota un articolo tratto dal quotidiano Libero che svela uno degli ennesimi colpi che stanno per essere sferrati contro l’Eni, rea di essersi posizionata dalla parte sbagliata in questa guerra del gas:

L’olandese volante manovra su Eni, fonte Libero di Claudio Antonelli

Gli strani interessi del fondo Kvam

La più grande azienda italiana è sotto attacco. Domani il pressing americano sull’Eni uscirà allo scoperto. Ad agosto, le velate – nemmeno tanto – critiche di esponenti vicini ai democratici di Washington, preoccupati per l’asse del cane a sei zampe con la Libia e con la Russia. A settembre, Eric Knight, fondatore del fondo Usa Knight Vinke Asset Management, chiede in una lettera ai vertici dell’Eni lo spezzatino del gruppo. Ora Kvam decide di formalizzare i suoi suggerimenti in un incontro pubblico a Milano (domani alle 10, Hotel Four Seasons). L’obiettivo è raccogliere il consenso tra i piccoli azionisti necessario per portare avanti in assemblea la proposta vera e propria. La tesi sottostante, sostenuta da una Lex Column del Financial Times e suggerita da Knight, é che l’Eni sia un monopolio verticalmente integrato ormai anacronistico. Quindi, separarla in due tronconi potrebbe far felici gli azionisti e risolvere varie magagne, politiche e regolatorie oltre che finanziarie. Il riferimento è nel core business di Total, Bp e Shell. Da un lato aziende grosse impegnate nell’estrazione e dall’altro colossi come Gas de France, E.On e Centrica che si occupano della commercializzazione.

Gli obiettivi

Secondo il fondo Usa, dunque, separare l’upstream dal downstream creerebbe valore finanziario addirittura del 100% e comporterebbe un ritorno immediato sia per Eric knight, il fondatore di Kvam, che detiene l’uno per cento di Eni (oltre a partecipazioni in Enel e Snam Rete Gas) e per CalPers, il fondo pensionistico della California partner storico e alleato fidato di Knight in tante battaglie. Tutte sostenute da un medesimo schema: primo proporre un’operazione diretta a cambiare le strategie e la struttura della società adocchiata. Fare pressione sui vertici. Fare una campagna sui mass media per convincere grandi e piccoli azionisti. Infine chiudere la partita e monetizzare i ritorni. Negli ultimi anni il fondo ha agito così verso Hsbc, Shell e Suez. Interessante è il caso dei francesi di Suez.

Il caso Suez

Nel gennaio 2004 Knight acquisisce una quota dell’uno per cento circa , come ha fatto con Eni lo scorso anno. Nel novembre successivo scrive una lettera al board per chiedere una revisione strutturale delle attività. La richiesta principale avanzata a Suez è smembrare i conglomerati vendendo il 50% di Electrobel, fornitore di elettricità belga a un prezzo medio di 450 euro per azione. Suez rifiuta. A marzo 2005 Kvam convince 34 Comuni belgi a chiedere uno spin-off che avrebbe potenzialmente reso alle locali casse pubbliche 8 miliardi di dollari. Poi il fondo Usa sposta l’interesse sulla fusione Suez-Gdf dichiarandola iniqua e definendo sottocapitalizzata Gdf. A novembre 2006 annuncia di aver riunito 20 investitori (pari al 15% del capitale di Suez) intenzionati a bloccare la fusione. Passa un altro anno e a dicembre 2007 arriva l’offerta di Francois Pinault. Le azioni Suez a quel punto arrivano a 40 euro e Knight vende il suo pacchetto con un profitto addirittura del 100%. Insomma un metodo rodato che sicuramente vorrebbe ripetere con Eni. Anche perchè CalPers, in privato, avrebbe più volte bacchettato Knight per un semplice fatto: nel 2007 il fondo californiano ha registrato nel fondo di Knight un utile del 7,4% contro il 15,5 stimato e nel 2008 il rendimento non ha superato il 5%.

Al momento oltre all’articolo apparso sul Financial Times in cui si punta il dito sul taglio del dividendo di Eni «segno di scarsa performance» il fondo di Knight potrebbe essere il suggeritore anche di un altro articolo apparso sempre sul quotidiano londinese dedicato a Tullow Oil. La società inglese le cui licenze di estrazione ugandesi potrebbero essere d’interesse del Cane a sei zampe. Secondo il Financial Times Tullow Oil non avrebbe strategie petrolifere ma solo interessi finanziari come se volesse lasciare campo libero a operatori stranieri. A settembre anche sulla stampa italiana compaiono numerosi articoli a fonte Knight.

Così se appaiono sempre chiari gli obiettivi del fondo attivista, non sono altrettanto palesi gli interessi retrostanti.

La coppia Kvam-CalPers ha infatti in comune una segretezza praticamente blindata. Il fondo pensionistico californiano per statuto può, si legge nello Statement of Investment Policy for Corporate Governance, «In circostanze non abituali in cui gli obblighi di registrazione siano dannosi per la strategia utilizzata il personale assieme all’ufficio legale può considerare finanziariamente più vantaggioso rinunciare temporaneamente ai diritti di voto per procura di CalPers in un coinvestimento». Come dire, se si agisce di concerto con terzi tutto resta ignoto. Parimenti il fondo di Knight, che secondo indiscrezioni avrebbe in pancia circa 3 miliardi di dollari, è registrato in Delaware e quindi non ha l’obbligo di rendere noto il bilancio di fine anno. Nè le strategie a medio lungo termine.

Le lobby

A parte le rendite dirette del fondo e del partner californiano, è interessante capire chi sia Eric Raimondo Knight e quali lobby sostenga o, viceversa, abbia a sostegno. Il finanziere nato ad amsterdam nel 1959 è figlio di una olandese, Ella Vinke, discendente di una famosa famiglia di broker marittimi. E di un napoletano proveniente dalla Giamaica, Carlo Knight. Eric quarantenne prende la residenza a Napoli in via Posillipo dove ha in realtà trascorso l’infanzia. Viaggia in Campania solo per le ferie, ma è assiduo frequentatore della Svizzera. Dove, dopo aver fondato Knight Vinke &C, conosce Tito Tettamanti che lo aiuta a inserirsi nello Sterling Investment group con sede alle Isole Vergini. Qui incontra il banchiere Edoard Stern, ex direttore di Bank Stern assassinato a Ginevra nel 2005 dall’amante. Ma soprattutto conosce gli uomini di CalPers famosi per il loro potere. Sono riusciti addirittura a far togliere le Filippine dalla lista Usa delle giurisdizioni d’investimento per poi dopo poco farle rientrare. Causando un crollo del mercato di Manila di quasi un 4%. Insomma i contorni di Knight e l’attività dei suoi sostenitori non sono ben delineate, ma le elargizioni di Kvam sono al contrario chiarissime.

Un socio del fondo, il direttore indipendente Jeffrey Keil ha fatto una serie di donazioni al partito Democratico. Nel 1997 a Chris Dodd, ora capo del banking committe. Tra il 2002 e il 2004 al senatore Chuk Schumer famoso per aver votato due volte no all’impeachment di Clinton. Nel 2003 a Joe Lieberman e nel 2006 al One American Committee democratico.

[14] In queste condizioni e mentre il multipolarismo si realizza, gli europei si farebbero bene a svegliarsi. La profonda crisi economica nella quale essi sembrano affondare condurrà a questo risveglio? È l’effetto positivo che bisognerebbe augurarsi dalle difficoltà dolorose che i popoli dell’Europa sopporteranno nei decenni a venire.

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La Cina sarebbe in grado di distruggere le portaerei degli Stati Uniti

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Fonte: http://www.voltairenet.org
29 settembre 2009

La Cina effettua le prove finali per lo sviluppo del suo missile anti-nave Dong Feng 21. Disponendo di una tecnologia senza pari nel mondo, questo missile vola fino a Mach 10 con una gittata di 2000 km.

Negli ultimi anni, la Cina è diventata padrona assoluta dei missili anti-nave a corta gittata, già sperimentati con successo sul campo di battaglia durante la guerra israelo-libanese del 2006. Ingegneri cinesi, consulenti di Hezbollah, avevano gravemente danneggiati delle navi da guerra israeliane. La flotta dell’IDF doveva la sua salvezza all’attivazione di potenti sistemi di disturbo che aveva reso impossibili tiri successivi. Da allora, la Cina avrebbe migliorato i sistemi di guida, in modo da mantenerli operativi, nonostante tale tipo di interferenze.

Se il Dong Feng 21 è effettivamente operativo, esso rappresenta un enorme salto tecnologico e metterà fine, per diversi anni, alla supremazia navale anglo-sassone. Questo missile può raggiungere le portaerei degli Stati Uniti, nonostante il loro complesso sistema di difesa.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

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Africa in the Multipolar System

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In the new multipolar structure, fully in the consolidation phase, Africa risks becoming, for economic and geostrategic reasons, the stakes between the western system, led by the US, and the Euro-Asiatic powers, Russia, China and India. In order to prevent and block that possibility, and especially to take on a decisive global in the medium and long term, the continental integration of Africa represents a need and a challenge which the African ruling classes are urgently called to answer. Such integration must probably be configured on a regional basis, following three principal lines: from the Mediterranean, from the Indian Ocean and from the Atlantic Ocean.


Multipolarism: a scenario undergoing consolidation

Multiple factors, including principally a) the US’s incapacity to manage the post-bipolar phase that arose after the Soviet collapse; b) the reaffirmation of Russia operated by Putin and consolidated by Medvedev; c) the economic growth and the new geopolitical weight of China and India, two nation-continents; d) the release of some important South American countries from the protection of Washington, have set preconditions for the constitution of a multipolar system.

The new geopolitical scenario, after a first gestational phase, continually undermined by Washington, London and European oligarchies led by Sarkozy and Merkel, now proves to be consolidating, thanks to the ongoing cooperation activities between Moscow, Beijing and New Delhi regarding large crucial themes, including: the supply and distribution of energy resources, continental security, solutions being adopted relative to the economic-financial crisis, the reinforcement of some institutions with multiregional, if not continental, value, such as the for Shanghai Cooperation Organization, realistic stances regarding various questions imposed by the US in the international debate, from Iran’s nuclear programme to human rights in China, Russia and Iran and ultimately also in India. (1). Beyond the process of Euro-Asiatic integration, it should be noted that the new international picture should be further consolidated by the effect of strategic agreements that some Euro-Asiatic countries (Russia, Iran and China) have reached with some important South American countries such as Brazil, Venezuela and Argentina, in economic matters and in some cases military ones as well.

In light of the considerations laid out above, there seem to be essentially two features that mark the new geopolitical picture:

a) one – relative to the constitution and the very existence of the new international order – seems to emerge from the synergy of aims that stimulate the biggest Euro-Asiatic countries and those of Indio-Latin America. The wishes of the élite managers of Moscow, Beijing, New Delhi, Teheran, and lately Ankara (2) converge with those of Brasilia, Caracas and Buenos Aires and tend to make themselves topical in geopolitical practices that foresee, through strategic relationships, the demotion of the from world power to regional power. At the end of the first decade of this century, Eurasia and Indio-Latin America (3) seem to make up the pillars on which the current international system rests. The entire multipolar wager will very probably be played in the medium and long term on the full integration, or better, the degree of internal cohesion of the two great continental masses.

b) the other feature, which in our opinion could concern the nature of the new geopolitical context, seems to consist in the continentalist articulation with which it tends to manifest itself. (4).

Against the consolidation of such a new scenario, it is however necessary to keep in mind that the western system led by North America, even if in a declining phase, or perhaps because it is in a declining phase, seems to accentuate, despite the rhetoric of the new administration, its own expansionist and aggressive nature. This not only will foster the current differences, but will create additional ones, which probably will be discharged in the most geopolitically and geostrategically fragile areas. Africa is one of these.

Africa’s fragility and the US’s penetration of the southern hemisphere

In this frame of reference, highly laden with tensions since, as shown above, determined by the confrontation between the new multipolar system in accelerated definition and that centred on the US, Africa finds it hard to find a clear position, that is, to imagine itself as a single geopolitical entity, even if a very complex one, apart from the deep and various cultural, ethnic, sectarian, climatic, economic and social differences that the entire continent shows (5).

Nevertheless, it was at the long-ago 1919 (so in another geopolitical context, also in transition, it’s worth stressing) conference of Paris, that the Africans expressed the need to unify their continent (6). Previously, the Panafrican movement, which arose in the US and in the Antilles at the end of the 19th c. from the ideas of the mixed-race American William Edward Burghardt Du Bois, bard of the “pan-negro” movement, and of the Jamaican Marcus Garvey, author of the watchword “back to Africa” and of the so-called “Black Zionism”, regarded mainly the cultural unity of the African peoples. On a purely political level the Panafrican movement contributed, during the decolonisation process, to the creation of the “Organization of African Unity”, today known as the “African Union.”

Today, after almost a century of inconclusive summits and conferences dedicated to continental unity (or integration) (what’s more, understood and theorised in different ways) the obstacles placed in the way of its creation seem to reside in the usual unresolved historical-political issues that include, among others, classic problems relative to the lack of infrastructure, political fragmentation in states modulated by the western paradigm (7), to the incapacity of the local ruling class to manage various tribalisms with a single and pro-continental, or at least regional logic, to the colonial heritage and, especially, to western appetites, further increased in the last few years, in virtue of African synergistic politics put into effect by the US and its regional ally, Israel (8). A quick and superficial reading of African events would convince an analyst to add, to US appetites, those of China, Russia and India. In that respect, one must also observe that Asian, or rather, Eurasian interests in Africa have a particular value and that the whole of Africa itself could benefit from them, since they would help Africa’s entry into the new multipolar system, and so would geopolitically anchor it to the Eurasian continent. Africa, in such a future scenario, would constitute the third pole of the Euro-Afro-Asiatic axis.

Washington, in the last year of the Bush administration, which was mired in middle-eastern conflicts (Iraq and Afghanistan); hampered by Russia and China in its march toward the Central Asian republics; lost the match, together with London and the European Union, in the Russian-Ukrainian dispute over gas; left downhearted by the Georgian venture (August 2008); found Turkish autonomy in the South Stream planning unbearable (9), intensified its foreign policy toward the southern part of the planet, in South America and in Africa.

In the two years 2007-2008 the US tried to disjoint the emerging Eurasian-Indio-Latin American geoeconomic axis BRIC (Brazil, Russia, India and China) and tried to undermine accords aimed at South American integration, putting pressure mainly on Brazil and Venezuela. In this strategy, which we can define as a “strategy to recover control of one’s former back garden” should be included, for example, the revival of the Fourth Fleet, as much as episodes such as that of the secessionist riots in the Bolivian crescent (departments of Tarija, Beni, Pando and Santa Cruz), orchestrated, according to a number of South American analysts, including the Brazilian Moniz Bandeira, by Washington. Such renewed interest by the US in control of South America, begun by the previous Republican administration, is likewise followed by the current one, led by the Democrat Obama, as demonstrated by two emblematic cases: that of US meddling in the Honduran coup d’etat, and, especially, that relative to the installation of military bases in Colombia.

The current US penetration in Africa is an obligatory path for three main reasons.

One regards the issue of energy. According to a study by some experts commissioned in 2000 by the National Intelligence Council, the US expects by 2015to be able to take advantage of at least 25% of the petroleum coming from Africa (10). The search for and control of sources of energy in Africa corresponds to two needs seen as priorities by Washington and by petroleum groups that direct and support energy policy (11). The first need obviously derives from strategies aimed at searching for sources of energy supply, diversified and as an alternative to those of the Middle East. The second, on the other hand, regards protecting the dominant role that the US acquired during the last century, in the control and distribution of world energy resources. This role is now undergoing a very critical phase, caused by recent and synergic policies put into effect by Russia, China and some South American countries in the energy sector. The antagonist of the US in Africa is, as noted, China. The People’s Republic of China, in the last decade, has reinforced and implemented relationships in Africa and made investments there, especially in infrastructure, what’s more, following a policy started during the Cold War period. China is interested not only in African petroleum, but also in gas (12) and in materials considered strategic for its development, such as coal, cobalt and copper. On the energy front, an example important for the consequences and relationships between the US and China, is given by the fundamental contributions China made to the Sudan for its petroleum exports. Sudan, as known, has been a petroleum exporter since 1999 thanks to Chinese help; this has brought Khartoum to the “particular” attention and care of Washington. Recently (27 October 2009), the White House formally renewed economic sanctions on Sudan because of human rights issues in Darfur.

The other reason that African policy is a US priority for the next decade is geopolitical and strategic order. In the midst of the current economic-financial crisis, Washington should, as a major global player, direct its efforts in maintaining its positions in global zones, penalty to pay, in the best outcome, a rapid reorganization in regional power, or in the worst, a disastrous collapse, difficult to overcome in the short term. Instead, in line with the traditional geopolitical expansion that has always marked its relations with other parts of the planet, Washington chose Africa with its ample space to manoeuvre, from which to relaunch its military weight on the global plane in order to contest the Asian powers for world supremacy. In this adventurous initiative Washington obviously involved all of Europe. The new US policy in Africa is due to the fact that the US now finds closed two of the routes formerly open to access the Eurasian space: central Europe and the near and middle East. The first route, after the wave of victorious colourful revolutions that had drawn the foreign countries near Russia (the so-called New Europe) into the geopolitical space dominated by Washington, it seems for now a difficult road to follow, since Moscow has raised its guard. The difficulties encountered by the US in the issue of the space shield are indicative of this. The second route is that delineated, for a number of years, by the so-called Great Middle East doctrine: total control of the Mediterranean sea, elimination of Iraq, military occupation of Afghanistan, penetration into the central Asian republics. But the application of this geopolitical doctrine has not produced the results that the Pentagon and Washington expected in a reasonably short time; on the contrary, it has been negative because of the lasting and exhausting Afghan conflict and the unresolved Iraqi question and especially by Moscow’s Eurasian policies, aimed at recovering prestige and importance in central Asia.

The third reason, ultimately, is preventative order. This is linked to the policies under which the US currently acts in the southern hemisphere, in order to nullify the south-south axis, undergoing laborious definition among many African and South American nations. The main heads of state in Indio-Latin America and in Africa have recently confirmed, during the September 2009 summit on Isla Margarita (Venezuela), the wish to proceed with the strategic plan for “south-south cooperation” between Africa and South America, begun in December 2008 in Abuja, Nigeria.

The penetration tools Washington has adopted to control African space are of three orders: military order, AFRICOM (13), that is, the Military Command of the US for Africa, created in 2007 and put into action the following year; economic-financial order (seen in the case of sanctions against Sudan and the interference of the International Monetary Fund and Word Bank in the relationship between the Democratic Republic of Congo and China) (14); and last, one relative to the communication strategy of which a good example is Obama’s speeches, already considered “historic”, in Cairo and Accra. On the military plane, it’s important to note that the US penetration seems to favour, as a bridgehead to neutralise Sudan and the Democratic Republic of Congo, the area made up of Tanzania, Burundi, Kenya, Uganda and Rwanda. It should be stressed that the total military control of eastern Africa constitutes and important piece of the US strategy for domination of the Indian Ocean.

Africa’s geopolitical lines for the 21st century

Despite the difficulties that now hamper its geopolitical unification, Africa, in order to safeguard its own resources and stay out of disputes between the US, China, and probably Russia and India – disputes that could be resolved on its own territory – needs to get organised, at least regionally, along three principal lines that pivots with the Mediterranean basin, the Indian Ocean, and the Atlantic Ocean.

The activation of economic and strategic cooperation policies, at least regarding security, between the countries of North Africa and of Europe, on the one hand and similarly with India (to that aim note the Delhi Declaration, drawn up in the course of Summit 2008 India-Africa) (15), on the other, besides making the African regions more interconnected, sets up the basis for a potential future unification of the continent along regional poles and entered in the broadest Euro-Afro-Asian context. Likewise, the Atlantic line, that is the pursuit of strategic south-south cooperation between Africa and Indo-Latin America, would foster, in this case, the cohesion of western African nations and would contribute to the unification of the continent. In particular, the development of the Atlantic line would reinforce the weight of Africa relative to Asia, and to China in the first place.

The desirable integration of Africa – realistically possible only if structured along regional poles – brings to mind the historical development, prior to the colonial period, of authentically African political formations, which, it’s worth remembering, followed a regional basis. (16).


* Tiberio Graziani is director of Eurasia. Rivista di studi geopolitici (Journal of Geopolitical Studies) – www.eurasia-rivista.org


1. Regarding India and the violation of human rights, especially those relative to religion, see the India Chapter of the Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, ( http://www.uscirf.gov/ ) and the interesting critical article by M. V. Kamath, US must stop meddling in India’s internal problems, “The Free Press Journal”, 3 September 2009 ( http://www.freepressjournal.in/ ), which denounces the manipulation by Washington regarding human rights and civil liberties for evident geopolitical aims.

2. Regarding the erosion of relationships between Turkey under Erdogan and the West, see Soner Cagaptay, Is Turkey Leaving the West?, www.foreignaffairs.com, 26/10/2009 and the essay by Morton Abramowitz and Henri J. Barkey, Turkey’s Transformers, Foreign Affairs, November/December 2009.

3. Recently (17-18 October 2009) the 13 South American countries belonging to ALBA signed the treaty constituting the unified system of national compensation (SUCRE), whose objective is the substitution of the dollar for commercial exchange starting in 2010.

4. Tiberio Graziani, Il tempo dei continenti e la destabilizzazione del pianeta, Eurasia. Rivista di studi geopolitici (Italian Journal of geopolitical studies), n. 2, 2008.

5. For a review of the issues that impede African integration and the factors the lack of homogeneity, see Géopolitique de l’Afrique et du Moyen-Orient, a work coordinated by Vincent Thébault, Nathan, Paris 2006, pp.69-220.

6. Nineteen years before, in July 1900, a first Pan-African meeting had taken place in London, dedicated, however, to the unity of Africans and their descendents in the Americas.

7. Africa is divided into 53 states and in two Spanish enclaves (Ceuta and Melilla), to which should be added the self-proclaimed states of El Ayun (western Sahara) and Hargeisa (Somaliland).

8. For recent Israeli policy in Africa, see Nicolas Michel, Le grand retour de Israël en Afrique, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; Philippe Perdrix, F. Pompey, P.F. Naudé, Israël et l’Afrique : le business avant tout, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; René Naba, Israël en Afrique, à la quête d’un paradis perdu, http://www.renenaba.com/ , 10/10/2009.

9. On 6 August 2009, Putin and Erdogan signed an agreement that foresees the passage in Turkish territorial waters of the Russian gas pipeline, rival of the Nabucco project supported by the US and European Union.

10. The study quoted, Global Trends 2015. A dialogue about the Future with Nongovernment Experts, December 2000, can be accessed at the government site of the Office of the Director of National Intelligence, www.dni.gov/

11. African Oil: A Priority for U. S. National Security And African Development, Proceedings of an Institute Symposium, The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, Research Papers in Strategy, May 2002, 14. The document can be accessed at the site: http://www.israeleconomy.org/.

12. “The African continent possesses enormous natural gas reserves estimated at 14.56 trillion cubic metres, or 7. 9% of the world total. Verified reserves in Nigeria and Algeria (5.22 and 4.5 trillion cubic respectively) are less than those of Russia (43.3 trillion cubic metres), Iran (29.61), Qatar (25.46), Turkmenistan (7.94), Saudi Arabia (7.57) and the United Arab Emirates (6.43), but greater than those of Norway (2.91), which is one of the key gas-exporting countries. Still, levels of natural gas production and consumption in Africa are fairly low. Gas production in 2008 was 214.8 billion cubic metres, or 7% of the world total (an increase of 4.85 over 2007). South America has been the only continent to produce less natural gas in the same year. The consumption of natural gas in 2008 in Africa was 94.9 billion cubic metres or 3.1% of the world total (an increase of 6.1% over 2007), which is the lowest level on the world scale. Besides, 50% of natural gas produced in Africa – 115.6 billion cubic metres – is exported, mostly as liquefied natural gas (62.18 billion cubic metres). The share of African countries (Algeria, Nigeria, Egypt, Libya, Equatorial Guinea and Mozambique) in the global supply of gas is 14.2%, but the same level of liquefied natural gas is much higher – 27.5%.”, Roman Tomberg, Le prospettive di Gazprom in Africa, www.eurasia-rivista.org, 16 October 2009.

13. The militarization process in Africa by Washington has intensified further. See Kevin J. Kelley, Uganda: grande esercitazione militare degli USA nella regione settentrionale, www.eurasia-rivista.org, 14 October 2009.

14. Renaud Viviene et alii, L’ipocrita ingerenza del FMI e della Banca mondiale nella Repubblica democratica del Congo, www.eurasia-rivista.org , 19 ottobre 2009.

15. The text of the Delhi Declaration can be found at: http://www.africa-union.org.

16. Regarding the “regionalist” character of Africa, note the French Africanist Bernard Lugan in the introduction to his ponderous Histoire de l’Afrique, Ellipses, Paris 2009, p.3.: « Le longue déroule de l’histoire du continent africain est rythmé par plusieurs mutations ou rupture qui se produisirent selon une périodisation différente de celle de l’histoire européenne. De plus, alors qu’en Europe les grand phénomènes historiques ou civilisationnels furent continentaux, dans les Afriques, ils eurent des conséquences régionales, sauf dans le cas de la colonisation ».

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Aфрика у мултиполарном систему

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Приредио и превео са италијанског и француског: Драган Мраовић


У новом мултиполарном поретку, у пуној фази консолидације, Африка ризикује да постане, због економских и геостратешких разлога, улог у игри између западног система под америчким вођством и евроазијских сила, Русије, Кине и Индије. У циљу превентиве и спречавања те евентуалности, а посебно ради стицања одлучујуће глобалне улоге на средњи и дуги рок, континентална интеграција Африке је потреба и изазов којима афрички руководиоци морају хитно да се позабаве и дају потребан одговор. Вероватно би та интеграција морала да се конфигурише на регионалној основи, следећи три главне линије водиље, које чине Медитеранско море, Индијски океан и Атлантски океан.


Мултиполаризам: сценарио на путу консолидације

Многобројни фактори, међу којима су најважнији: а) америчка неспособност да управља пост-биполарном фазом која је настала после совјетског колапса; б) реафирмација Русије коју је обавио Путин, а консолидовао Медведев; ц) економски раст и политичка тежина две државе-континента као што су Кина и Индија; д) ослобађање неких значајних земаља Јужне Америке од вашингтонског туторства, довели су до предуслова за успостављање мултиполарног система.

Нови геополитички сценарио, после прве фазе превирања, који су Вашингтон, Лондон и европске олигархије, под контролом Саркозија и Меркел, непрестано минирали, сада се чини да је на путу консолидације захваљујући сталним активностима између Москве, Пекинга и Њу Делхија, а по великим темама као што су: снабдевање и дистрибуција енергетских извора, континентална безбедност, решења у току усвајања која се односе на економско-финансијску кризу, јачање неких институција са мултирегионалним вредностима, ако не и континенталним, као, на пример, Шангајскао рганизација за сарадњу, реалистичко заузимање ставова у односу на разна питања која су наметнуле САД у међународној расправи, почев од оног које се односи на иранско нуклеарно питање до питања људских права у Кини, Русији, Ирану, па чак и у Индији1. Осим процеса евроазијске интеграције, потребно је рећи да се нови међународни оквир и даље консолидује захваљујући и стратешким споразумима које су неке евроазијске земље (Русија, Иран и Кина) постигле са важним јужноамеричким земљама као Бразил, Венецуела и Аргентина, на економском, а у неким случајевима и војном плану.

У светлу изложеног, чини се да су карактеристике нове геополитичке слике суштински две:

а) чини се да прва – у односу на успостављање и само постојање новог међународног поретка – израња из синергије намера највећих евроазијских земаља и земаља индиолатинске Америке. Жеље руководећих елита Москве, Пекинга, Њу Делхија, Техерана, а однедавно и Анкаре2 подударају се са жељама Бразилије, Каракаса и буеонос Аиреса и теже да се актуелизују у геополитичку праксу која предвиђа, преко стратешких односа, свођење САД од светске на регионалну силу. Чини се да, на крају прве деценије овог века, Евроазија и индиолатинска Америка представљају два стуба на којима почива данашњи међународни система. На плану унутрашње интеграције, боље рећи, на степену унутрашње кохезије две велике континенталне масе, одлучиће се краткорочно и дугорочно, врло вероватно, исход целе мултиполарне игре.

б) друга карактеристика, која се тиче, по нашем мишљењу, природе новог геополитичког контекста, тицала би се континенталне артикулације преко које та карактеристика тежи да се изрази4.

Међутим, пред таквом консолидацијом новог сценарија, треба имати у виду да западни систем под северноамеричким вођством, иако у силазној фази, или управо зато што је у тој фази, наглашава, упркос реторици нове администрације, своју експанзионистичку и агресивну природу.

Крхкост Африке и амерички продор на јужну хемисферу

У оваквим оквирима високооптерећеним напетостима који су, као што смо претходно већ видели, условљени супротстављањем новог мултиполарног система, који се убрзано дефинише, систему у коме су САД средиште, Африка тегобно покушава да пронађе свој јасни положај, односно да се оформи као унитарни геополитички ентитет, иако веома сложен, имајући у виду дубоке и разнолике културне, етничке, верске, климатске, економске и друштвене неусклађености видљиве на целом континенту5.

Па, ипак, од давне 1919. (дакле, у сасвим другачијем геополитичком контексту, који је такође био у транзицији, треба то нагласити), с Париском конференцијом, Африканци исказују потребу да унифицирају свој континент6. Претходно је панафрички покрет, настао у САД и на Антилама, крајем 19. века, на основу идеја америчког мелеза Вилијама Едварда Бургарта Ди Боа, творца панцрначког покрета и идеја јамајчанина Маркуса Гарвеја, творца лозинке «повратак у Африку» и такозваног «црног сионизма», тежио превасходно културном јединству афричких народа. На чисто политичком плану панафрички покрет је допринео, током процеса деколонизације, стварању «Организације афричког јединства», који данас носи име «Афричка унија».

У наше време, после отприлике једног века самита и стерилних конференција посвећених јединству (или интеграцији) континента (различито схватаном и теоријски обрађиваном), препреке које настају реализацији тог јединства опстају, чини се, у нерешеним историјско-политичким питањима која обухватају, између осталог, класичне проблеме који се односе на недостатак инфраструктура, на политичку фрагментацију на државе моделиране према западној парадигми7, на неспособност локалне владајуће класе да управља племенским разликама кроз унитарну и проконтиненталну логику или, бар, регионалну, на колонијално наслеђе и, пре свега, на западне апетите, који су се огромно повећали задњих година, у складу са афричком политичком синергијом коју су осмислили САД и њихов регионални савезник, Израел8. Брз и површан прегел афричких догађаја навео би аналитичара да западни апетитима придода и кинеске, руске и индијске апетите. Али, у том погледу треба приметити да азијски или, боље рећи, евроазијски интереси у Африци имају посебну вредност из које ће, на дужи рок, управо целокупна Африка извући добробити, што би олакшало њено укључење у нови мултиполарни систем и што би је геополитички везало за евроазијску континенталну масу. Африка би била, у таквом будућем сценарију, трећи пол евро-афро-азијског простора.

Вашингтон је, пошто је био, у задњој години Бушове администрације, заглибљен у средњоисточним сукобима (Ирак и Авганистан), заустављен, од стране Русије и Кине, у свом походу приближавања евроазијским републикама, пошто је изгубио, заједно са Лондоном и Европском унијом, утакмицу у руско-украјинском спору око гаса, изашао погнуте главе из грузијске авантуре (август 2008.), лоше сварио и турску самосталну одлуку о гасоводу Јужни ток9, појачао своју спољну политику на југу планете, односно у јужној Америци и Африци.

У периоду 2007-2008 САД су покушале да разбију БРИК (Бразил, Русија, Индија, Кина), нову геоекономску осовину која је успостављена између Евроазије и индиолатинске Америке и да минирају споразуме усмерене на јужноамеричку интеграцију преко притисака на Бразил и Венецуелу, пре свега. У такву стратегију, коју можемо дефинисати као «стратегију повраћаја контроле над својим бившим двориштем», уклапају се, на пример, како есхумација Четврте флоте тако и епизода као што су сецесионистички покрети на боливијском подручју (департмани Тарија, Бени, Пандо и Санта Круз), које је подстицао управо Вашингтон, према мишљењу разних јужноамеричких аналитичара, међу којима је и Бразилац Мониз Бандеира. Тај обновљени амерички интерес за контролу Јужне Америке, који је започела претходна републиканска администрација, једнако следи и садашња коју предводи демократа Обама, што се показало у два типична примера: мешање САД у државни удар у Хондурасу и, пре свега, изградња војних база у Колумбији.

Што се тиче текућег продора САД у Африку, он је за Америку обавезна етапа због три главна разлога.

Један се односи на енергетско питање. Према једној студији коју је од неких стручњака 2000. године наручио National Intelligence Council, САД се надају да ће моћи да искоришћавају, почев од 2015, бар 25% нафте из Африке10. Истраживање и контрола енергетских извора у Африци спада у два приритета Вашигтона и нафташких група које усмеравају и подржавају енергетску политику11. Очигледно је да први приоритет произилази из стратегја усмерених на истраживање извора енергетског снабдевања, различитих и алтернативних у односу на средњеисточне изове, а други приоритет се односи на заштиту хегемонијске улоге коју су САД стекле током прошлог века, а у вези контроле и дистрибуције светских енергетских извора. Та улога пролази сада кроз врло критичну фазу због недавне синергичне политике Русије, Кине и неких јужноамеричких земаља на енергетском плану. Познато је да је Кина антагониста САД у Африци. Она је последње деценије ојачала и успоставила односе и флукс инвестиција, посебно у инфраструктуре, на афричком континенту, настављајући политику која је започета још у време хладног рата. Кина не само да је заинтересована за афричку нафту, већ и за гас12 и материјале који су стратегијског значаја за њен развој, као угаљ, кобалт и бакар. На енергетском плану, један пример, значајан за последице на односе између Кине и САД, садржи се у снажној кинеској подршци Судану у погледу извоза нафте. Као што је познато, Судан, захваљујући кинеској помоћи , извози нафту још од 1999. године. То је довело Картум у жижу посебне пажње и бриге Вашингтона. Недавно (27. октобра 2009), Бела кућа је формално обновила економске санкције СУдану због питања људских права становника Дарфура.

Други разлог због кога афричка политика представља амерички приоритет у наредној деценији је геополитичког и стратешког реда. Усред садашње економско-финансијске кризе, Вашингтон би морао, као велики глобални играч, да усмери напоре на одржање својих позиција на глобалној шаховској табли, у супротном би најмања казна, у најбољем случају, била брзо свођење на силу регионалног карактера, а у најгорем случају, дошло би до катастрофалног колапса, који би тешко било савладати у кратком року. Иначе, у складу са традиционалном експанзионистичком политиком, која одувек карактерише америчке односе са осталим деловима планете, Вашингтон је одабрао Африку као велики маневарски простор из кога може да поново лансира своју војну моћ на глобалном плану у циљу да оспори светски примат азијским силама. Наравно, Вашингтон ће у ту авантуристичку иницијативу умешати целу Европу. Нова америчка политика у Африци је настала због тога што су САД наишле на запречене главне путеве који су раније изабрани ради приступа евроазијском простору: центроисточној Европи и Блиском и Средњем истоку. Први пут, после победоносних обојених револуција које су привукле, у геополитички простор под хегемонијом Вашингтона, земље блиског руског иностранства (такозвана Нова европа), сада је тешко следити, јер је Москва постала обазривија. У том смислу су индикативне тешкоће на које су САД наишле по питању свемирског штита. Други пут је онај већ годинама зацртан кроз такозвану доктрину Великог средњег истока: потпуна контрола Медитеранског мора, елиминација Ирака, ограничавање Ирана, војна окупација Авганистана, продор у централне евроазијске републике. Ипак, примена те геополитичке доктрине није произвела резултате које су Пентагон и Вашингтон очекивали у разумно кратким роковима, већ се показала негативном због трајућег и заморног авганистансток сукоба и нерешеног ирачког питања, а, пре свега, због евроазијске политике Москве која је усмерена на придобијање угледа и значаја на евроазијском простору.

Најзад, трећи разлог је превентивног карактера, Повезан је с политиком коју сада САД воде на јужној хемисфери планете у циљу дан обезвреде осовину југ-југ која је у току трудног дефинисања између многих афричких и јужноамеричких држава. Главни шефови држава индиолатинске Америке и Африке потврдили су недавно, септембра 2009, током самита у Исла Маргарити (Венецуела) вољу да наставе стратешки пројекат «сарадње југ-југ» између Африке и Јужне Америке који је покренут децембра 2006. у Нигерији, у Абуји.

Три су врсте инструмената продора које је Вашингтон усвојио ради контроле афричког простора: војни, преко АФРИКОМ организације13, односно војне команде САД за Африку, створене 2007. године и активиране наредне године; економско финансијски (случај санкција Судану и укључивање Међународног монетарног фонда и Светске банке у односе са Демократском Републиком Конго и Кином)14; и најзад инструмент стратегије комуникације за које су ваљан пример Обамини говори који се сматрају «истотијским» из Каира и Акре. На војном плану је важно приметити да амерички продор фаворизује, као мостобран, ради неутрализације Судана и Демократске Републике Конго, подручје Танзаније, Бурундија, Кеније, Уганде и Руанде. Треба подвући да потпуна контрола источне Африке представља важан елемент америчке стратегије у иљу хегемоније на Индијском океану.

Геополитичке линије водиље Африке за 21. век

Упркос тешкоћама које данас ометају њену геополитичку унификацију (или интеграцију), Африка има потребу, у циљу спасавања сопствених ресурса и ради склањања од расправа између САД, Кине и, врло вероватно, Русије и Индије – а те расправе би се решавале баш на њеној територији – да се организује, бар регионално, дуж три главне линије водиље које се врте око медитеранског басена, Индијског и Атлантског океана.

Активирање политике привредне и стратешке сарадње, бар у погледу безбедности, између северноафричких земаља и Европе, са једне стране, и аналогне политике с Индијом (у том погледу имати у виду Декларацију из Делхија дату током самита Индија – Африка15, 2008. године) са друге стране, осим што чини кохезионим умешане афричке регионе, поставило би основе за будућу потенцијалну континенталну унификацију засновану на регионалним половима и укључену у шири евро-афро-азијски контекст. Исто тако, атлантска водиља, односно настојање на стратешкој сарадњи југ-југ између Африке и индиолатинске Африке, подстакла би, у том случају, кохезију региона западне Африке и допринела унификацијиконтинента. Посебно би развој атлантске водиље ојачало афричку тежину превасходно у односу на Азију и Кину.

Пожељна интеграција Африке – реално могућа само ако се заснива на регионалним половима – призива на ум историјски развој, који претходи колонијалном периоду, аутентичних афричких политичких формација, а које су настајале, вреди то поменути, управо на регионалнопј основи16.


Напомене:

1У односу на Индију и кршење људских права, посебно религијских, треба погледати India Chapter у Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, ( http://www.uscirf.gov/ ), а знимљив је и критички чланак M. V. Kamath-а, US must stop meddling in Indias internal problems, “The Free Press Journal”, 3. септембар 2009. (http://www.freepressjournal.in/), који указује на инструментализацију коју врши Вашингтон у односу на људска права и грађанске слободе, због очигледних геополитичких разлога.

2У погледу ерозије односа између Ердоганове Турске и Запада, погледати Soner Cagaptay, Is Turkey Leaving the West?, www.foreignaffairs.com, 26/10/2009 и есеј који су написали Morton Abramowitz и Henri J. Barkey, Turkeys Transformers, Foreign Affairs, новембар/децембар 2009.

3Недавно је (17-18. октобра 2009.) 13 јужноамеричких држава које су чланице организације ALBA потписале конститутивни трактат унифицираног система навиооналне компензације (sucre), чији је циљ замена долара у трговинској размени већ од 2010.

4Tiberio Graziani, Il tempo dei continenti e la destabilizzazione del pianeta, Eurasia, Rivista di studi geopolitici, n. 2, 2008.

5Ради прегледа питања која спречавају афричке интеграције и фактора нехомогености погледати Géopolitique de lAfrique et du MoyenOrient, дело које координира Vincent Thébault, Nathan, Париз, 2006, стр.69-220. За факторе такозваног афричког подразвоја и тумачења «историјског динамизма» погледати Claudio Moffa, LAfrica alla periferia della storia. Conflittualità interetnica, sviluppo storico, sottosviluppo, Aracne Editrice, Рим 2006.

6Деветнаест година раније, јула 1900, у Лондону је одржан први панафрички скуп, али посвећен јединству Африканаца и њихових потомака у Америци.

7Африка је подељена на 53 државе и две шпанске енклаве (Ceuta и Melilla), којима треба додати самопроглашене државе El Ayun (Западна Сахара) и Hargeisa (Somaliland).

8О недавној израелској политици у Африци може се читати у: Nicolas Michel, Le grand retour de Israël en Afrique, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; Philippe Perdrix, F. Pompey, P.F. Naudé, Israël et lAfrique : le business avant tout, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; René Naba, Israël en Afrique, à la quête dun paradis perdu, http://www.renenaba.com/ , 10/10/2009.

9Путин и ердоган су потписали 6. aвгуста 2009, споразум који предвиђа пролазак руског гасовода кроз турске територијалне воде, а тај гасовод је супраник гасовода Набуко који подржавају САД и Европска унија.

10Наведена студија, Global Trends 2015. A dialogue about the Future with Nongovernment Experts, децембар 2000, може се наћи на владином сајту Office of the Director of National Intelligence, www.dni.gov/.

11African Oil: A Priority for U. S. National Security And African Development, Proceedings of an Institute Symposium, The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, Research Papers in Strategy, мај 2002, 14. Документ се може наћи на сајту: http://www.israeleconomy.org/.

12“Афрички континент има огромне резерве природног гаса процењене на 14,56 трилиона кубних метара, односно il 7,9% укупних светских резерви. Резерве у Нигерији и Алжиру (5,22 и 4,5 трилиона кубних метара) мање су од руских (43,3 трилиона кубних метара), Иран(29,61), Катар (25,46), Туркменистан (7,94), Саудијска Арабија (7,57) и Уједињени арапски емирати (6.43), али су веће од залиха Норвешке (2,91), која је једна од кључних земаља извозника гаса che. Ипак, нивои производње и потпрошње гаса у Африци су ниски. Производња гаса је у 2008. износила 214,8 билиона кубних метара, односно bilioni di metri cubi, ovvero i 7% укупне светске производње (пораст од 4,85 у односу на 2007.). Јужна Америка је била једини континент који је те године произвео мање гаса. Потрошња природног гаса у Африци 2008. је износила 94,9 билиона кубних метара односно 3,1 од укушне светске потрошње од 3,1% (то је 6,1% раста у односу на 2007.), што је најнижи миво на светској скали. Више од 50% природног гаса произведеног у Африци – 115,6 билиона кубних метара – извози се, највише као течни природни гас (62,18 билиона кубних метара). Квота афричких земаља (Алжир, Нигерија, Египат, Либија, Екваторијална Гвинеја и Мозамбик) у глобалној испоруци гаса износи 14,2%, али ниво течног природног гаса је много – 27,5%.”, Roman Tomberg, Le prospettive di Gazprom in Africa, www.eurasia-rivista.org, 16. октобар 2009.

13У задње време је Вашингтон појачао процес милитаризације Африке. Тим поводом може се прочитати Kevin J. Kelley, Uganda: grande esercitazione militare degli USA nella regione settentrionale, www.eurasia-rivista.org, 14. октобар 2009.

14Renaud Viviene et alii, L’ipocrita ingerenza del FMI e della Banca mondiale nella Repubblica democratica del Congo, www.eurasia-rivista.org , 19. октобар 2009.

15Текст Delhi Declarationможе да се нађе на сајту: http://www.africaunion.org.

16У погледу “регионалистичког” карактера Африке, француски африканиста, Француз Bernard Lugan каже у уводу свог обимног дела Histoire de lAfrique, Ellipses, Париз 2009, стр.3.: “У дугој историји афричког континента смењивале су се многе мутације или раскиди који су настајали у другачијој периодизацији од оне у европској историји. Штавише, док су велике историјске или цивилизацијске појаве биле континенталне, у Африци су оне имале регионалне последице, осим у случају колонизације. ”

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L’inevitabile multipolarismo

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Dopo il precedente articolo (Dove va il mondo?) che prendeva spunto dalle dichiarazioni di Putin (riportate in una nota di Jean Jeronimo in Où va la Russie ? Moscou, à la recherche d’une identité post-soviétique) circa la decisività della spinta nella sfera politica per la rinascita e per il ritorno della Russia sul palcoscenico mondiale (riflessione che, peraltro, ci era servita, per fornire un’ interpretazione meno superficiale di quanto viene celato dietro il paravento dello scontro di civiltà)[1] vorremmo segnalare un altro lavoro, sempre di un analista francese, che riporta concetti cruciali, sulla presente fase geopolitica, sui quali anche noi abbiamo spesso insistito.

Le riflessioni in questione, trascritte nel sito geostrategie.com, sono a firma di Aymeric Chauprade ed il titolo del pezzo è già di per sé esplicativo: La Russie, obstacle majeur sur la route de « l’Amérique-monde » (La Russia, principale ostacolo sulla strada dell’America-mondo).

La tesi principale avanzata dall’autore è quella secondo cui gli Usa, dopo l’11 settembre 2001, non sono stati in grado di realizzare il proprio progetto di egemonismo integrale, per merito della Russia, la quale difendendo il proprio spazio vitale, coincidente con l’heartland, ha dimostrato al mondo che la fase unipolare, a guida indiscussa di una sola superpotenza, è definitivamente tramontata e non potrà più essere realizzata nei termini in cui era stata concepita dagli strateghi americani.

La Russia ha anche comprovato all’Europa che senza un’intesa preventiva con essa sul piano energetico i livelli di sviluppo tecnologico e industriale del Vecchio Continente saranno a rischio per il prossimo futuro, mentre è solo da una mutua cooperazione nei diversi ambiti sociali (e, quindi non esclusivamente, in quelli commerciali) che i partners dell’est e dell’ovest potranno proiettarsi, quali punti di snodo cruciali, nella riconfigurazione degli equilibri mondiali, inevitabilmente tendenti al multipolarismo. L’Europa sembra però non aver compreso la direzione di questi cambiamenti epocali e si ostina a seguire gli Stati Uniti nel loro progetto unipolare, ormai fallimentare, che dal lato europeo porterà ancora svantaggi politici, crisi economiche e il rischio di spingere un partner fondamentale, qual è appunto diventata la Russia, a guardare più verso Oriente che in direzione dell’occidente.

Chauprade rammenta che uno degli autori classici della geopolitica, H. Mackinder, imperniava il suo impianto teorico su una nozione chiave: quella secondo cui “le grandi dinamiche geopolitiche del pianeta si articolavano intorno al cuore del mondo (heartland), l’Eurasia”.

A sua volta, quest’ultima aveva come suo pivot centrale la Russia, nazione che dal punto di vista geostrategico, ha sempre giocato ad est un ruolo paragonabile a quello Germania in Europa. Per tale ragione solo neutralizzando Mosca diventava possibile controllare l’intera Eurasia ed esprimere un controllo assoluto su tutta l’area: “La théorie de Mackinder nous rappelle deux choses que les thalassocraties anglo-saxonnes n’ont jamais oubliées : il n’y a pas de projet européen de puissance (d’Europe puissance) sans une Allemagne forte et indépendante (or l’Allemagne reste largement sous l’emprise américaine depuis 1945) ; il n’y pas d’équilibre mon- dial face au mondialisme américain sans une Russie forte[2].”

Senza dubbio una Russia forte, politicamente indipendente ed economicamente stabile, impedisce alla potenza centrale americana di dispiegare il suo disegno di dominio incontrastato sul pianeta, facendo traballare la sua visione messianica di iperpuissance con un destino manifesto: “L’Amérique veut l’Amérique-monde; le but de sa politique étrangère, bien au- delà de la seule optimisation de ses intérêts stratégiques et économiques du pays, c’est la transformation du monde à l’image de la société américaine. L’Amérique est messianique et là est le moteur intime de sa projection de puissance. En 1941, en signant la Charte de l’Atlantique, Roosevelt et Churchill donnaient une feuille de route au rêve d’un gouvernement mondial visant à organiser une mondialisation libérale et démocratique. Jusqu’en 1947, l’Amérique aspira à la convergence avec l’URSS dans l’idée de former avec celle-ci un gouvernement mondial, et ce, mal- gré l’irréductibilité évidente des deux mondialismes américain et soviétique. Deux ans après l’effondrement européen de 1945, les Américains comprirent qu’ils ne parviendraient pas à entraîner les Soviétiques dans leur mondialisme libéral et ils se résignèrent à rétrécir géographiquement leur projet : l’atlantisme remplaça pro- visoirement le mondialisme.”[3]

Pertanto, all’indomani della caduta della cortina di ferro e del sistema socialista che dietro di questa, in isolamento dal resto del mondo, aveva stentato a svilupparsi col suo modello politico di centralizzazione statale e di economia pianificata (nulla a che vedere con il proclamato comunismo degli esordi rivoluzionari che avrebbe dovuto realizzare il sogno dell’uguaglianza sociale e della fine dello sfruttamento capitalistico) gli statunitensi sono tornati a riproporre la loro primigenia visione assolutistica di un mondo interamente sottoposto al giogo della loro autorità politica, economica, culturale, e militare.

Ma queste pretese egemoniche ammantate da un destino manifesto (Manifest Destiny) sono durate, in termini storici, l’espace d’un matin dimostrando l’eccesso di velleitarismo che si nascondeva nelle dottrine suprematiste di una nazione che nell’ultimo scorcio del XX secolo aveva realmente creduto di poter annichilire il movimento della storia.

In questa chiave fanatica vanno anche lette le fantomatiche emergenza mondiali relative all’importazione della democrazia e al terrorismo islamico, con il suo corteggio di organizzazioni internazionali dell’odio che ne incarnano il disegno, vedi Al Qaeda: “La guerre contre l’islamisme n’est que le paravent officiel d’une guerre beaucoup plus sérieuse : la guerre de l’Amérique contre les puissances eurasiatiques.”[4]

Ma il dilemma americano non ha solo la faccia fiera del rigenerato establishment russo che governa un’estensione territoriale quasi-continentale: “Après la disparition de l’URSS, il est apparu clairement aux Américains qu’une puissance continentale, par la combinaison de sa masse démographique et de son potentiel industriel, pouvait briser le projet d’Amérique-monde : la Chine. La for- midable ascension industrielle et commerciale de la Chine face à l’Amérique fait penser à la situation de l’Allemagne qui, à la veille de la Première Guerre mondiale, rattrapait et dépassait les thalassocraties anglo-saxonnes. Ce fut la cause première de la Première Guerre mondiale”[5].

Per quanto, geopoliticamente, la Cina appaia al momento più arretrata della Russia, nel senso che la sua strategia è fondamentalmente basata su un più ristretta rappresentazione economica – penetrazione e conquista dei mercati esteri accreditandosi quale “fabbrica del mondo” – il possibile saldamento di questo fattore con una più ampia visione (geo)politica impensierisce oltremodo i decisori statunitensi: “Si la Chine se hisse au tout premier rang des puissances pensent les stratèges américains, par la combinaison de sa croissance économique et de son indépen- dance géopolitique, et tout en conservant son modèle confucéen à l’abri du démo- cratisme occidental, alors c’en est fini de l’Amérique-monde. Les Américains peu- vent renoncer à leur principe de Destinée manifeste (Principle of Manifest Destiny) de 1845 ainsi qu’au messianisme de leurs pères fondateurs, fondamentalistes bi- blistes ou franc-maçons[6].”

Quando il socialismo sovietico si è de-realizzato gli americani si sono liberati di un fardello ingombrante posto sul loro cammino biblico di potenza predestinata ma hanno dovuto rapidamente concentrare le proprie energie sul contenimento della Cina. Come dice Chauprade gli statunitensi, memori degli insegnamenti di Mackinder, dopo aver distrutto le aspirazioni eurasiatiche della Germania e poi quelle dei russi, dovevano adesso fronteggiare e debellare quelle cinesi. Questi argomenti non potevano essere rivelati tal quali alla propria opinione pubblica né, tanto meno, ci si poteva aspettare un’adesione ai piani americani da parte degli alleati europei dichiarando apertamente le finalità strategiche perseguite. Per queste motivazioni sono state enfatizzate problematiche reali ma che fino a quel momento avevano avuto al massimo una dimensione regionale: “La guerre humanitaire et la guerre contre le terrorisme seraient les nouveaux prétextes servant à masquer les buts réels de la nouvelle grande guerre eurasiatique : la Chine comme cible, la Russie comme condition pour emporter la bataille. La Chine comme cible parce que seule la Chine est une puissance capable de dépasser l’Amérique dans le rang de la puissance matérielle à un horizon de vingt ans. La Russie comme condition parce que de son orientation stratégique découlera largement l’organisation du monde de demain : unipolaire ou multipolaire[7]”.

Individuata la complessiva strategia americana se ne possono analizzare adesso i singoli segmenti. Secondo l’analista francese gli americani starebbero puntando a:

– compattare un blocco transatlantico da spingere fino alle frontiere della Russia e sul lato occidentale della Cina

– stringere d’assedio la Cina controllandone le fonti di approvvigionamento energetico dalle quali dipendono le sorti del suo sviluppo economico.

– accerchiare l’impero di mezzo grazie ad alleanze con i suoi avversari secolari (indiani, vietnamiti, coreani, giapponesi, taiwanesi, etc.).

– indebolire l’equilibrio tra le grandi potenze nucleari con lo sviluppo dello scudo antimissile che, tuttavia, Obama al momento dice di non voler più impiantare (ma si tratta solo di un ripiegamento congiunturale).

– strumentalizzare i separatismi manifesti o potenziali nei diversi contesti nazionali (dalla Serbia, alla Russia, alla Cina, fino all’Indonesia e, ovviamente, al Medio-oriente arabo).

Finché al potere in Russia restava insediata la casta oligarchica eltsiniana gli americani hanno davvero sperato di poter dare forma a quell’alleanza, ad essi del tutto favorevole, che da Vladivostok arrivava fino a Vancouver, finalizzata a fortificare il loro assoluto ed indiscusso monocentrismo, secondo quanto auspicato dal Presidente Bush senior. Per questo gli americani invece di smantellare e rinunciare ai precedenti assetti militari, all’indomani della dissoluzione dell’URSS, hanno mantenuto e rafforzato la Nato, nonostante la funzione di quest’organizzazione fosse palesemente venuta meno con il disgregamento del patto di Varsavia e dei paesi che lo avevano costituito: “L’extension du bloc transatlantique est la première dimension du grand jeu eurasiatique. Les Américains ont non seulement conservé l’OTAN après la disparition du Pacte de Varsovie mais ils lui ont redonné de la vigueur : premièrement l’OTAN est passé du droit international classique (intervention uniquement en cas d’agression d’un Etat membre de l’Alliance) au droit d’ingérence. La guerre contre la Serbie, en 1999, a marqué cette transition et ce découplage entre l’OTAN et le droit international. Deuxièmement, l’OTAN a intégré les pays d’Europe centrale et d’Europe orientale. Les espaces baltique et yougoslave (Croatie, Bosnie, Kosovo) ont été intégrés à la sphère d’influence de l’OTAN. Pour étendre encore l’OTAN et resserrer l’étau autour de la Russie, les Américains ont fomenté les révolutions colorées (Géorgie en 2003, Ukraine en 2004, Kirghizstan en 2005), ces retourne- ments politiques non violents, financés et soutenus par des fondations et des ONG américaines, lesquelles visaient à installer des gouvernements anti-russes. Une fois au pouvoir, le président ukrainien pro-occidental demanda naturellement le départ de la flotte russe des ports de Crimée et l’entrée de son pays dans l’OTAN. Quant au président géorgien il devait, dès 2003, militer pour l’adhésion de son pays dans l’OTAN et l’éviction des forces de paix russes dédiées depuis 1992 à la protection des populations abkhazes et sud-ossètes[8]”. Il sogno Americano s’infrange definitivamente però con la salita al potere di una nuova classe dirigente in Russia. Su questo tema e sulla riorganizzazione politica del gigante dell’est ho scritto su un articolo che uscirà prossimamente per la rivista Eurasia. Nonostante sappiamo benissimo che certe dinamiche sono di tipo oggettivo e nascono all’interno di determinate congiunture storiche occorre, tuttavia, dare il giusto risalto ai portatori soggettivi di questi “sviluppi”, cioè agli uomini che si fanno interpreti di tali cambiamenti radicali: “En 2000, un événement considérable, peut-être le plus important depuis la fin de la Guerre froide (plus important encore que le 11 septembre 2001) se produisit pourtant : l’accession au pouvoir de Vladimir Poutine. L’un de ces retourne- ments de l’histoire qui ont pour conséquences de ramener celle-ci à ses fondamen- taux, à ses constantes. Poutine avait un programme très clair : redresser la Russie à partir du levier énergétique. Il fallait reprendre le contrôle des richesses du sous-sol des mains d’oligarques peu soucieux de l’intérêt de l’Empire. Il fallait construire de puissants opérateurs pétrolier (Rosneft) et gazier (Gazprom) russes liés à l’Etat et à sa vision stratégique. Mais Poutine ne dévoilait pas encore ses intentions quant au bras de fer américano-chinois. Il laissait planer le doute. Certains, dont je fais d’ailleurs partie puisque j’analysais à l’époque la convergence russo-américaine comme passagère et opportune (le discours américain de la guerre contre le terrorisme interdisait en effet momentanément la critique américaine à propos de l’action russe en Tchétchénie), avaient compris dès le début que Poutine reconstruirait la politique indépendante de la Russie ; d’autres pensaient au contraire qu’il serait occidentaliste. Il lui fallait en finir avec la Tchétchénie et reprendre le pétrole. La tâche était lourde. Un symp- tôme évident pourtant montrait que Poutine allait reprendre les fondamentaux de la grande politique russe : le changement favorable à l’Iran et la reprise des ventes d’armes à destination de ce pays ainsi que la relance de la coopération en matière de nucléaire civil[9]”. In sostanza, il corso politico seguito dal nuovo establishment russo ha smantellato le ambizioni eurasiatiche degli yankees. Questa sentenza storica segna la fine della strategia unipolare statunitense che non può concretarsi senza l’integrazione di Mosca nel famigerato blocco transatlantico. Quindi, nessun blocco intercontinentale a guida Usa nessuna possibilità di sbarrare il passo alla Cina e alle sue alleanze ad est. E’ questo l’ingrediente fondamentale che ha esacerbato lo squilibrio e l’instabilità mondiale favorendo l’entrata nella fase multipolare. Sebbene dopo l’11 settembre gli americani hanno creduto ancora di potersi riposizionare sullo scacchiere eurasiatico, i loro piani sono nuovamente falliti nel giro di un lustro: “Le 11 septembre 2001 offrit pourtant l’occasion aux Américains d’accélérer leur programme d’unipolarité. Au nom de la lutte contre un mal qu’il avaient eux- mêmes fabriqués, ils purent obtenir une solidarité sans failles des Européens (donc plus d’atlantisme et moins « d’Europe puissance »), un rapprochement conjonctu- rel avec Moscou (pour écraser le séparatisme tchétchéno-islamiste), un recul de la Chine d’Asie centrale face à l’entente russo-américaine dans les républiques musul- manes ex-soviétiques, un pied en Afghanistan, à l’ouest de la Chine donc et au sud de la Russie, et un retour marqué en Asie du Sud-est. Mais l’euphorie américaine en Asie centrale ne dura que quatre ans. La peur d’une révolution colorée en Ouzbékistan poussa le pouvoir ouzbek, un moment tenté de devenir la grande puissance d’Asie centrale en faisant contrepoids au grand frère russe, à évincer les Américains et à se rapprocher de Moscou. Washington per- dit alors, à partir de 2005, de nombreuses positions en Asie centrale, tandis qu’en Afghanistan, malgré les contingents de supplétifs qu’elle ponctionne à des Etats européens incapables de prendre le destin de leur civilisation en main, elle continue de perdre du terrain face à l’alliance talibano-pakistanaise, soutenue discrètement en sous-main par les Chinois qui veulent voir l’Amérique refoulée d’Asie centrale. Les Chinois, de nouveau, peuvent espérer prendre des parts du pétrole kazakh et du gaz turkmène et construire ainsi des routes d’acheminement vers leur Turkestan (le Xinjiang). Pékin tourne ses espoirs énergétiques vers la Russie qui équilibrera à l’avenir ses fournitures d’énergie vers l’Europe par l’Asie (non seulement la Chine mais aussi le Japon, la Corée du Sud, l’Inde…)[10]”.

Infine, possiamo tornare alla nostra asserzione iniziale: la Russia è certamente la nazione chiave per il dispiegamento del multipolarismo in virtù di una duplice oggettività, “posizionale” e politica, che al momento, consente al colosso dell’est di esprimere al meglio la propria potenza. Ma è, innanzitutto, la politica putiniana, fondata sulla leva energetica, che ha riportato Mosca agli antichi fasti sospingendola nelle alleanze antiegemoniche che coinvolgono ormai tanto l’America Latina (Venezuela) che il Medio-Oriente (Iran): “Cet axe est le contrepoids au pétrole et au gaz arabes conquis par l’Amérique. Washington voulait étouffer la Chine en contrôlant l’énergie. Mais si l’Amérique est en Arabie Saoudite et en Irak (1ère et 3e réserves prouvées de pétrole), elle ne contrôle ni la Russie, ni l’Iran, ni le Venezuela, ni le Kazakhstan et ces pays bien au contraire se rapprochent. Ensemble, ils sont décidés à briser la suprématie du pétrodollar, socle de la centralité du dollar dans le système économique mondial (lequel socle permet à l’Amérique de faire supporter aux Européens un déficit budgétaire colossal et de renflouer ses banques d’affaires ruinées)[11].”

Certo, la Casa Bianca (chiunque assurga al potere, sia esso democratico o repubblicano, bianco, nero giallo ecc. ecc.) non resterà a guardare lo svilupparsi di una situazione ad essa totalmente sfavorevole che rischia d’infrangere i suoi sogni egemonici o di ridimensionare la portata geopolitica delle sue aspirazioni. Per questo la pressioni sulla Russia si faranno sempre più aspre nonostante qualche apparente apertura, come ultimamente verificatosi sul sistema ABM. Tuttavia, a lungo termine, l’aggressività americana è destinata a ripresentarsi e i prodromi di questa sono già visibili nella periferia prossima russa. Queste ipotesi sono confermate, ad esempio, dallo schieramento di truppe in Georgia e dall’ingerenza crescente negli affari di molti paesi del Caucaso. Al momento il progetto più avanzato resta quello dell’installazione di due basi terrestri e una navale nel paese governato dal quisling Shakasvili. Tutto ciò sul piano militare. Ma anche sul piano geoconomico e commerciale gli americani non restano in “surplace”: “Les Américains vont tenter de développer des routes terrestres de l’énergie (oléoducs et gazoducs) alternatives à la toile russe qui est en train de s’étendre sur tout le continent eurasiatique, irri- guant l’Europe de l’Ouest comme l’Asie. [12]”.

E l’Europa come si comporta di fronte al rimescolamento degli assetti geopolitici di questa fase? Essa agisce in maniera scoordinata e quando decide di muoversi unitariamente è solo per impedire ai paesi membri di approfondire troppo i loro rapporti con Mosca per non irritare Washington. E’ quello che si è verificato, solo per citare un caso emblematico, allorché alcune imprese energetiche europee hanno stretto accordi di partenariato con le omologhe russe per gli approvvigionamenti e per l’installazione di gasdotti. Ne sa qualcosa la nostra Eni, sottoposta ad attacchi vergognosi e pretestuosi da parte delle burocrazie europee (ma purtroppo anche da parte dei poteri decotti nazionali italiani e delle loro “sponde” partitiche) che non vedono di buon occhio il SouthStream, sistema di pipelines gasiere concorrente a quello filoamericano Nabucco, sostenuto proprio dall’Ue per mero servilismo pro-Usa, essendo stata ampiamente dimostrata la non profittabilità economica di quest’ultimo progetto[13].

Ma non è sicuramente questa la via che permetterà al Vecchio Continente di poter ancora contare qualcosa nella fase multipolare in dispiegamento:“Dans ces conditions et alors que la multipolarité se met en place, les Européens feraient bien de se réveiller. La crise économique profonde dans laquelle ils semblent devoir s’enfoncer durablement conduira-t-elle à ce réveil ? C’est la conséquence positive qu’il faudrait espérer des difficultés pénibles que les peuples d’Europe vont endurer dans les décennies à venir[14].”


[1] Il c.d. scontro di civiltà sarebbe più correttamente da intendersi quale mera proiezione ideologica e “fenomenica” di un sotteso e ben più sostanziale trapasso epocale derivante dal depotenziamento di un tipo particolare di formazione sociale, quella dei funzionari privati del capitale di matrice americana, a vantaggio di una diversa tipologia riproduttiva ancora in gestazione.

[2] La teoria di Mackinder ci ricorda due cose che le talassocrazie anglosassoni non hanno mai dimenticato: non ci sono progetti europei di potenza (di Europa potente) senza una Germania forte ed indipendente (ma la Germania resta in gran parte sotto l’influenza americana dal 1945); non ci sono equilibri mondiali di fronte al mondialismo americano senza una Russia forte.

[3] L’America vuole l’America-mondo; lo scopo della sua politica estera, bene al di là della sola ottimizzazione dei suoi interessi strategici ed economici del paese, è la trasformazione del mondo a immagine della società americana. L’America è messianica ed è questo l’intimo motore della sua proiezione di potenza. Nel 1941, firmando la Carta dell’Atlantico, Roosevelt e Churchill davano un itinerario al sogno di un governo mondiale finalizzato ad organizzare una mondializzazione liberale e democratica. Fino al 1947, l’America aspirò alla convergenza con l’URSS nell’ide di formare con questa un governo mondiale, e ciò, malgrado l’irriducibilità evidente dei due mondialismi americano e sovietico. Due anni dopo il crollo europeo del 1945, gli americani capirono che non sarebbero giunti a insinuare i sovietici nel loro mondialismo liberale e si rassegnarono a restringere geograficamente il loro progetto: l’atlantismo rimpiazzerà provvisoriamente il mondialismo.

[4] La guerra contro l’islamismo è soltanto il paravento ufficiale di una guerra molto più seria: la guerra dell’America contro le potenze eurasiatiche.

[5] Dopo la scomparsa dell’URSS, è sembrato chiaramente agli americani che una potenza continentale, con la combinazione della sua massa demografica e del suo potenziale industriale, poteva rompere il progetto di America-mondo: la Cina. Il formidabile progresso industriale e commerciale della Cina di fronte all’America fa pensare alla situazione della Germania che, alla vigilia della Prima Guerra mondiale, recuperava e superava le talassocrazie anglosassoni. Fu la causa principale dello Prima Guerra mondiale.

[6] Se la Cina si issa al rango di superpotenza, pensano gli strateghi americani, grazie alla combinazione della sua crescita economica e della indipendenza geopolitica, e pur conservando il suo modello confuciano al riparo dal democratismo occidentale, allora è finita per l’America-mondo. Gli americani possono rinunciare al principio del Destino manifesto (Principle of Manifest Destiny) del 1845 e al messianismo dei loro padri fondatori, fondamentalisti biblisti o franc-maçons [vedi wikipedia alla voce corrispondente]”.

[7] La guerra umanitaria e la guerra contro il terrorismo sono i nuovi pretesti che servono a mascherare gli scopi reali delle nuova grande guerra eurasiatica: la Cina come obiettivo, la Russia come condizione per vincere la battaglia. La Cina come obiettivo perché solo la Cina è una potenza capace di scalzare l’America dai ranghi di potenza mondiale in un orizzonte di venti anni. La Russia come condizione perché dal suo orientamento strategico deriverà in gran parte l’organizzazione del mondo di domani: unipolare o multipolare.

[8] L’estensione del blocco transatlantico è la prima dimensione del grande gioco eurasiatico. Gli Americani hanno non soltanto conservato la NATO dopo la scomparsa del Patto di Varsavia ma gli hanno ridato vigore: primieramente la NATO è passata dal diritto internazionale classico (intervento soltanto in caso d’aggressione di uno Stato membro dell’alleanza) al diritto di ingerenza. La guerra contro la Serbia, nel 1999, ha segnato questa transizione e questo disaccoppiamento tra la NATO ed il diritto internazionale. In secondo luogo la NATO ha integrato i paesi dell’Europa centrale e dell’Europa orientale. Gli spazi Baltici ed iugoslavi (Croazia, Bosnia, Kosovo) sono stati integrati nella sfera d’influenza della NATO. Per espandere ancora la NATO e attorniare la Russia, gli americani ha fomentato le rivoluzioni colorate (Georgia nel 2003, Ucraina nel 2004, Kirghisistan nel 2005), questi sovvertimenti politici non violenti, finanziati e sostenuti da fondazioni e ONGS americane, che miravano ad installare governi anti-russi. Una volta al potere, il presidente ucraino pro-occidentale chiese naturalmente la partenza della flotta russa dai porti della Crimea e l’entrata del suo paese nella NATO. Quanto al presidente georgiano egli spinse, dal 2003, per l’adesione del suo paese nella NATO e lo sfratto delle forze di pace russa dedicate dal 1992 alla protezione delle popolazioni dell’Abkhazia. e dell’Ossezia del sud.

[9] Nel 2000, un avvenimento considerevole, può darsi il più importante dalla fine della guerra fredda (più importante ancora che l’11 settembre 2001) si determinò, tuttavia: l’accesso al potere di Vladimir Putin. Uno di quei rivolgimenti della storia che hanno per conseguenza di riportare questa ai suoi fondamentali, alle sue costanti. Putin aveva un programma molto chiaro: raddrizzare la Russia a partire dalla leva energetica. Occorreva riprendere il controllo delle ricchezze del sottosuolo delle mani degli oligarchi poco preoccupati degli interessi dell’impero. Occorreva costruire forti operatori petroliferi (Rosneft) e gasieri (Gazprom) legati allo stato russo e alla sua visione strategica. Ma Putin non svelò ancora le sue intenzioni sul braccio di ferro americano-cinese. Egli lasciava crescere il dubbio. Alcuni, di cui faccio del resto parte poiché analizzavo all’epoca la convergenza russo-americana come passeggera ed opportuna (il discorso americano della guerra contro il terrorismo interdiva infatti momentaneamente la critica americana a proposito dell’azione russa in Cecenia), avevano compreso dall’inizio che Putin avrebbe ricostruito la politica indipendente della Russia; altri pensavano al contrario che sarebbe stato occidentalista. Gli occorreva chiudere con Cecenia e riprendere il petrolio. Il compito era difficile. Un sintomo chiaro tuttavia mostrava che Putin rprendeva i fondamentali della grande politica russa: il cambiamento favorevole verso l’Iran e la ripresa delle vendite di armi verso questo paese e il rilancio della cooperazione in materia di nucleare civile.

[10] L’11 settembre 2001 offrì tuttavia l’occasione agli americani di accelerare il loro programma unipolarista. In nome della lotta contro un male che aveva loro stessi fabbricato, poterono ottenere una solidarietà senza falle dagli europei (dunque più atlantismo e meno “Europa potente„), un ravvicinamento congiunturale con Mosca (per schiacciare il separatismo ceceno-islamista), un arretramento della Cina dall’Asia centrale a fronte dell’intesa russo-americana negli repubbliche musulmane ex-sovietiche, un piede in Afganistan, a ovest della Cina dunque ed a sud della Russia, ed un ritorno significativo nel Sud-est asiatico. Ma l’euforia americana in Asia centrale durò soltanto quattro anni. Il timore di una rivoluzione colorata in Uzbekistan spinse il potere uzbeko, per un momento tentato di diventare la grande potenza dell’Asia centrale facendo contrappeso al grande fratello russo, ad escludere gli americani ed à avvicinarsi a Mosca. Washington perse allora, a partire dal 2005, numerose posizioni in Asia centrale, mentre in Afganistan, malgrado i contingenti di suppletivi che spilla a stati europei incapaci di prendere in mano il destino della loro civiltà, continua a perdere terreno di fronte all’alleanza talibano-pakistana, sostenuta discretamente sotto banco da parte dei cinesi che vogliono vedere l’America respinta dell’Asia centrale. I cinesi, nuovamente, possono prendere parte del petrolio kazako e del gas turkmeno e costruire così vie d’istradamento verso il loro Turkestan (Xinjiang). Pechino rivolge le sue speranze energetiche verso la Russia che equilibrerà in futuro le sue forniture energetiche dall’Europa per l’Asia (non soltanto la Cina ma anche il Giappone, la Corea del Sud, l’India…)

[11] Quest’asse è il contrappeso al petrolio ed al gas arabi conquistati dall’America. Washington voleva soffocare la Cina controllando l’energia. Ma se l’America è in Arabia Saudita ed in Iraq (1° e 3° per riserve comprovate di petrolio), essa non controllale né la Russia, né l’Iran, né il Venezuela, né il Kazakhstan e questi paesi al contrario si avvicinano. Insieme, sono decisi à rompere la supremazia del petrodollaro, base della centralità del dollaro nel sistema economico mondiale (la quale base permette all’America di fare sopportare agli europei un deficit colossale e salvare le sue banche d’affari fallite).

[12] Gli americani stanno tentando di sviluppare strade dell’energia (oleodotti e gasdotti) alternativi alla trama russa che si sta estendendo su tutto il continente eurasiatico, “irrorando” anche l’Europa occidentale e l’Asia.

[13] A tal proposito riporto in nota un articolo tratto dal quotidiano Libero che svela uno degli ennesimi colpi che stanno per essere sferrati contro l’Eni, rea di essersi posizionata dalla parte sbagliata in questa guerra del gas:

L’olandese volante manovra su Eni, fonte Libero di Claudio Antonelli

Gli strani interessi del fondo Kvam

La più grande azienda italiana è sotto attacco. Domani il pressing americano sull’Eni uscirà allo scoperto. Ad agosto, le velate – nemmeno tanto – critiche di esponenti vicini ai democratici di Washington, preoccupati per l’asse del cane a sei zampe con la Libia e con la Russia. A settembre, Eric Knight, fondatore del fondo Usa Knight Vinke Asset Management, chiede in una lettera ai vertici dell’Eni lo spezzatino del gruppo. Ora Kvam decide di formalizzare i suoi suggerimenti in un incontro pubblico a Milano (domani alle 10, Hotel Four Seasons). L’obiettivo è raccogliere il consenso tra i piccoli azionisti necessario per portare avanti in assemblea la proposta vera e propria. La tesi sottostante, sostenuta da una Lex Column del Financial Times e suggerita da Knight, é che l’Eni sia un monopolio verticalmente integrato ormai anacronistico. Quindi, separarla in due tronconi potrebbe far felici gli azionisti e risolvere varie magagne, politiche e regolatorie oltre che finanziarie. Il riferimento è nel core business di Total, Bp e Shell. Da un lato aziende grosse impegnate nell’estrazione e dall’altro colossi come Gas de France, E.On e Centrica che si occupano della commercializzazione.

Gli obiettivi

Secondo il fondo Usa, dunque, separare l’upstream dal downstream creerebbe valore finanziario addirittura del 100% e comporterebbe un ritorno immediato sia per Eric knight, il fondatore di Kvam, che detiene l’uno per cento di Eni (oltre a partecipazioni in Enel e Snam Rete Gas) e per CalPers, il fondo pensionistico della California partner storico e alleato fidato di Knight in tante battaglie. Tutte sostenute da un medesimo schema: primo proporre un’operazione diretta a cambiare le strategie e la struttura della società adocchiata. Fare pressione sui vertici. Fare una campagna sui mass media per convincere grandi e piccoli azionisti. Infine chiudere la partita e monetizzare i ritorni. Negli ultimi anni il fondo ha agito così verso Hsbc, Shell e Suez. Interessante è il caso dei francesi di Suez.

Il caso Suez

Nel gennaio 2004 Knight acquisisce una quota dell’uno per cento circa , come ha fatto con Eni lo scorso anno. Nel novembre successivo scrive una lettera al board per chiedere una revisione strutturale delle attività. La richiesta principale avanzata a Suez è smembrare i conglomerati vendendo il 50% di Electrobel, fornitore di elettricità belga a un prezzo medio di 450 euro per azione. Suez rifiuta. A marzo 2005 Kvam convince 34 Comuni belgi a chiedere uno spin-off che avrebbe potenzialmente reso alle locali casse pubbliche 8 miliardi di dollari. Poi il fondo Usa sposta l’interesse sulla fusione Suez-Gdf dichiarandola iniqua e definendo sottocapitalizzata Gdf. A novembre 2006 annuncia di aver riunito 20 investitori (pari al 15% del capitale di Suez) intenzionati a bloccare la fusione. Passa un altro anno e a dicembre 2007 arriva l’offerta di Francois Pinault. Le azioni Suez a quel punto arrivano a 40 euro e Knight vende il suo pacchetto con un profitto addirittura del 100%. Insomma un metodo rodato che sicuramente vorrebbe ripetere con Eni. Anche perchè CalPers, in privato, avrebbe più volte bacchettato Knight per un semplice fatto: nel 2007 il fondo californiano ha registrato nel fondo di Knight un utile del 7,4% contro il 15,5 stimato e nel 2008 il rendimento non ha superato il 5%.

Al momento oltre all’articolo apparso sul Financial Times in cui si punta il dito sul taglio del dividendo di Eni «segno di scarsa performance» il fondo di Knight potrebbe essere il suggeritore anche di un altro articolo apparso sempre sul quotidiano londinese dedicato a Tullow Oil. La società inglese le cui licenze di estrazione ugandesi potrebbero essere d’interesse del Cane a sei zampe. Secondo il Financial Times Tullow Oil non avrebbe strategie petrolifere ma solo interessi finanziari come se volesse lasciare campo libero a operatori stranieri. A settembre anche sulla stampa italiana compaiono numerosi articoli a fonte Knight.

Così se appaiono sempre chiari gli obiettivi del fondo attivista, non sono altrettanto palesi gli interessi retrostanti.

La coppia Kvam-CalPers ha infatti in comune una segretezza praticamente blindata. Il fondo pensionistico californiano per statuto può, si legge nello Statement of Investment Policy for Corporate Governance, «In circostanze non abituali in cui gli obblighi di registrazione siano dannosi per la strategia utilizzata il personale assieme all’ufficio legale può considerare finanziariamente più vantaggioso rinunciare temporaneamente ai diritti di voto per procura di CalPers in un coinvestimento». Come dire, se si agisce di concerto con terzi tutto resta ignoto. Parimenti il fondo di Knight, che secondo indiscrezioni avrebbe in pancia circa 3 miliardi di dollari, è registrato in Delaware e quindi non ha l’obbligo di rendere noto il bilancio di fine anno. Nè le strategie a medio lungo termine.

Le lobby

A parte le rendite dirette del fondo e del partner californiano, è interessante capire chi sia Eric Raimondo Knight e quali lobby sostenga o, viceversa, abbia a sostegno. Il finanziere nato ad amsterdam nel 1959 è figlio di una olandese, Ella Vinke, discendente di una famosa famiglia di broker marittimi. E di un napoletano proveniente dalla Giamaica, Carlo Knight. Eric quarantenne prende la residenza a Napoli in via Posillipo dove ha in realtà trascorso l’infanzia. Viaggia in Campania solo per le ferie, ma è assiduo frequentatore della Svizzera. Dove, dopo aver fondato Knight Vinke &C, conosce Tito Tettamanti che lo aiuta a inserirsi nello Sterling Investment group con sede alle Isole Vergini. Qui incontra il banchiere Edoard Stern, ex direttore di Bank Stern assassinato a Ginevra nel 2005 dall’amante. Ma soprattutto conosce gli uomini di CalPers famosi per il loro potere. Sono riusciti addirittura a far togliere le Filippine dalla lista Usa delle giurisdizioni d’investimento per poi dopo poco farle rientrare. Causando un crollo del mercato di Manila di quasi un 4%. Insomma i contorni di Knight e l’attività dei suoi sostenitori non sono ben delineate, ma le elargizioni di Kvam sono al contrario chiarissime.

Un socio del fondo, il direttore indipendente Jeffrey Keil ha fatto una serie di donazioni al partito Democratico. Nel 1997 a Chris Dodd, ora capo del banking committe. Tra il 2002 e il 2004 al senatore Chuk Schumer famoso per aver votato due volte no all’impeachment di Clinton. Nel 2003 a Joe Lieberman e nel 2006 al One American Committee democratico.

[14] In queste condizioni e mentre il multipolarismo si realizza, gli europei si farebbero bene a svegliarsi. La profonda crisi economica nella quale essi sembrano affondare condurrà a questo risveglio? È l’effetto positivo che bisognerebbe augurarsi dalle difficoltà dolorose che i popoli dell’Europa sopporteranno nei decenni a venire.

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Il Brasile favorevole allo sviluppo di armi nucleari

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Fonte: UPI 28 settembre 2009

UPI 28 settembre 2009 – Il Vice Presidente Brasiliano José Alencar è favorevole allo sviluppo di armi nucleari in Brasile, come un deterrente contro qualsiasi aggressore straniero o tentativo di catturare i suoi giacimenti di petrolio offshore, – ma anche per avere rispettabilità a livello internazionale.

Le armi nucleari come strumento di deterrenza sono di grande importanza per un paese che ha 15000 km di confine“, ha detto. Alencar ha confermato i suoi commenti, ma i funzionari del governo, in seguito, hanno preso le distanze dalla dichiarazione, dicendo che erano la sua opinione personale.

Le armi nucleari sarebbero anche un deterrente per garantire la sicurezza del Brasile, nella recente scoperta di vasti depositi di petrolio off-shore e nel dare al paese una maggiore rispettabilità sulla scena internazionale, ha detto Alencar. Ha citato l’esempio del Pakistan, che ha definito una nazione povera, con “un seggio in vari organismi internazionali, proprio perché ha la bomba atomica.

Il Profilo nucleare del Brasile è diventato notizia, recentemente, dopo che il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha lanciato un programma di rigenerazione militare, firmando accordi per l’acquisto di armi in Europa e ha annunciato piani per la costruzione di un sottomarino a propulsione nucleare, per il pattugliamento dell’ampio e ricco giacimento di petrolio offshore del Brasile.

le intenzioni nucleari del Brasile, hanno acquisito ulteriore attenzione quando Lula ha ospitato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad nell’Assemblea generale dell’ONU a New York, ed ha invitato il leader iraniano a visitare il Brasile nel mese di novembre. Lula ha in programma di andare in Iran nel maggio del prossimo anno.

Il Brasile ha iniziato la sua attività scientifica nucleare negli anni ‘30 e avviato un attivo programma di ricerca di armi nucleari, che si protrasse per i due decenni delle dittature militari, dalla metà degli anni ‘60 a metà anni ‘80.

Il programma è stato abbandonato dopo il ripristino della democrazia alla fine degli anni ‘80, ma gran parte delle competenze tecniche e delle infrastrutture del Brasile è rimasta intatta.

Lula ha annunciato quest’anno che il Brasile prevede la costruzione di un sottomarino a propulsione nucleare, attraverso la promessa di trasferimento di tecnologia dalla Francia. E’ stata la prima indicazione che il programma nucleare è tornato nella lista delle priorità del paesi. Anche se Alencar ha citato i problemi di sicurezza per i giacimenti petroliferi off-shore, in via di sviluppo, gli analisti dicono che il programma nucleare favorirà le possibilità di dare al Brasile un ruolo preminente nel continente sudamericano. Lula e i suoi collaboratori hanno fatto riferimento al Brasile come potenza regionale e per la campagna per assegnare un seggio al paese, nel Consiglio di sicurezza.

Tuttavia, il ministro della Difesa Nelson Jobim ha detto, in agosto, che il Brasile non ha alcun interesse a sviluppare armi nucleari. Il Brasile è uno dei firmatari del Trattato di Tlatelolco del 1988 che vieta ai paesi in via di sviluppo dell’America Latina e dei Carabi, i programmi per armi nucleari.

Gli analisti hanno detto che i commenti Alencar non necessariamente indicano un cambio di politica, ma potrebbero offrire indizi per varie idee sul funzionamento all’interno dell’amministrazione Lula.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

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Serbia: i “nuovi imprenditori”, dei mafiosi protetti dallo Stato?

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Fonte: http://balkans.courriers.info/article13492.html

Dopo questa estate, un’ondata di scioperi ha colpito la Serbia: i lavoratori reclamano il pagamento di salari bloccati da mesi, oppure denunciano delle privatizzazioni irregolari.

Il governo si dichiara incompetente, in quanto non può intervenire nell’economia di mercato.

In realtà, i “nuovi imprenditori” serbi che hanno accumulato delle fortune colossali, sono dei generosi sponsors dei partiti politici, e lo Stato li protegge.

Pertanto, il modello sociale scelto potrebbe presto cadere in panne.

Questa estate, i media serbi hanno denunciato i padroni che non versano i salari dei loro impiegati e che non pagano i contributi sanitari né pensionistici, cosa che comporta delle perdite per le imprese e dei licenziamenti per i lavoratori.

A metà agosto, 32.000 persone scioperavano in Serbia in una cinquantina d’imprese, cifra che rappresenta meno dello 0,2% del totale dei salariati serbi.

Questa cifra non è inquietante, non annuncia obbligatoriamente un autunno “caldo” seguito da una catastrofe economica.

Inoltre, i dati pubblici forniti dal quotidiano Vecernje Novosti indicano che 8.300 lavoratori di 29 imprese stanno scioperando a causa dei ritardi nel pagamento dei salari (perfino di alcuni anni), tanto che 15.672 lavoratori di 11 imprese protestano a causa delle “privatizzazioni illegali”.

Questi si sentono ingannati o trascurati in quanto “co-proprietari” delle imprese privatizzate, e domandano che i nuovi proprietari siano rimpiazzati da altri, più seri.

I rappresentanti dello Stato affermano di non avere la possibilità di reagire, perché si tratta di proprietari e di capitali privati, ma i lavoratori sono considerati proprietà privata?

In realtà, lo Stato non osa mettere in moto i meccanismi legali contro i proprietari che non rispettano né i contratti di privatizzazione né le convenzioni collettive, nel timore che ciò conduca alla liquidazione di un gran numero di imprese privatizzate, e alla perdita di migliaia d’impiegati.

Lo Stato sembra difendere la nuova “classe capitalista” pretendendo di proteggere gli impiegati.

Un gruppo di teppisti protetti dai politici

In effetti, il meccanismo di liquidazione delle imprese in fallimento o piuttosto dei loro proprietari non funziona, e tutti i nuovi capitalisti somigliano a un gruppo di teppisti protetti dai politici.

Questa casta conta molto su generosi sponsors dei partiti politici, che approfittano della loro posizione per esercitare una sorta di racket sugli uomini politici e i servizi segreti, impedendo il funzionamento normale dello Stato di diritto.

Molti di questi investitori lasciano l’impressione di amatori ambiziosi, di mafiosi riconvertiti e di profittatori di guerra.

Il loro stile di vita conferma questa impressione: lo stile delle loro case, delle loro macchine, dei loro ristoranti, i menù di questi ristoranti e le giovani ragazze dello show-biz che gli girano attorno … Si finisce per porsi delle domande sulla natura dello Stato in cui queste persone godono di una tale riconoscenza.

Secondo una teoria popolare, la crisi attuale che tocca i nostri imprenditori proviene dal fatto che la crisi mondiale ha interrotto il meccanismo della rivendita delle imprese privatizzate agli acquirenti stranieri con un margine assai redditizio.

I rivenditori sono indebitati e devono ora rimborsare i prestiti che gli hanno permesso di acquistare le imprese per rivenderle o di trasformarle in terreni edificabili, per rivendere in seguito gli appartamenti costruiti.

Bozidar Delic, vice-Primo ministro e ministro della Scienza e dello Sviluppo tecnologico, ha recentemente dichiarato che era “indispensabile verificare i contratti di privatizzazione che non sono più rispettati dagli acquirenti”, perché ci sono degli esempi “in cui un uomo ricco acquista venti imprese in Serbia e se da un lato fa profitto dall’altro licenzia gli impiegati”.

Il gioco perverso delle ipoteche bancarie

Di più, le nostre banche – ricomprate dalle banche estere, ma spesso amministrate da dei quadri locali – hanno sostenuto “il sistema piramidale” d’acquisizione d’intere catene di vecchie imprese di Stato, attraverso le loro regole di “garanzia” di rendimento dei prestiti.

In realtà, il sistema delle ipoteche (spesso d’un valore quadruplo al credito accordato) ha destabilizzato il mercato immobiliare, a parte, può essere, per i terreni agricoli.

In effetti, si constata una nuova tendenza alla creazione di grandi tenute agricole in Vojvodina, resa possibile dal basso prezzo e dalla cattiva gestione dei terreni statali, il tutto allo scopo di aumentare “la capacità di credito” bancario.

Queste condizioni permettono a Dordije Nicovic di coltivare 25.000 ettari, a Miodrag Kostic 24.000 ettari, a Miroslav Miskovic 16.000, a Predrag Matijevic 12.000 e a Mile Jerkovic tra i 12.000 e i 14.000 ettari.

Si può domandare se tutti questi terreni non siano già l’oggetto d’ipoteche bancarie (leggere il nostro articolo “Vojvodina: gli oligarchi, nuovi grandi proprietari fondiari”).

Prendiamo ad esempio Mile Jerkovic, attualmente in prigione a causa del contrabbando di sigarette.

Egli ha raccontato di aver iniziato la sua carriera d’imprenditore grazie all’ipoteca di 500 ettari di terreno agricolo (d’origine sconosciuta), cosa che gli ha permesso di acquistare 19 società statali.

Ne ha già rivendute 9 (7 società di trasporto sono state riacquistate da una società svizzera, 2 da un partner di Subotica, mentre l’Agenzia per la privatizzazione si riprendeva 6 società).

Il caso di Mile Jerkovic non è unico: la maggioranza dei nuovi capitalisti sono obbligati ad acquistare senza sosta delle nuove imprese, per procurarsi nuovi crediti e coprire le spese legate alle acquisizioni precedenti.

Stando ad una recente analisi della rivista “Ekonomist magazin”, l’indebitamento totale dei nuovi imprenditori presso le banche serbe ed estere è di circa due miliardi di euro.

Se questo debito non aumenta ancora, andrà a crollare un giorno sulla schiena dei nuovi capitalisti, e lo Stato sarà obbligato a salvarli, sicuramente attraverso una rinazionalizzazione.

Il processo di privatizzazione in Serbia è oggetto di numerose critiche.

Esso deve essere rapido e definitivo.

Sciaguratamente, la privatizzazione è stata lenta e non ha risposto alle grande attese che aveva suscitato.

Oggi, sette anni dopo il lancio di un “sistema di vendita” delle imprese sociali, 287 (47.000 impiegati) non sono state riacquistate, così come 108 imprese statali, mentre 332 imprese attendono la loro liquidazione.

1.828 imprese sono state vendute attraverso richieste d’offerta o aste pubbliche, ma 420 contratti di privatizzazione sono stati rescissi perché i nuovi proprietari non li hanno rispettati.

La discrezione dei “nuovi imprenditori”

E’ difficile definire il ritratto della nuova classe capitalista serba, perché i suoi rappresentanti – Miskovic, Rankovic, Beko, Lazarevic, Hamovic, Matic, Babovic, Mandic, Rodic e compagnia – non amano le apparizioni pubbliche.

Questa posizione è legittima ma è ugualmente prudente perché i clan politici non perdonano la mancanza di lealtà e ogni apparizione alla televisione può essere interpretata come una critica ”della situazione attuale” o inscriversi nel quadro della lotta per il potere.

Tuttavia, l’economia è un affare pubblico che chiede di comunicare a proposito del “partenariato con lo Stato e la società”, e soprattutto a proposito dei contratti segnati con i loro impiegati e i cittadini di questo Stato.

Non è strano che i giornalisti che riportano le proteste degli operai non riescano mai ad ottenere il punto di vista degli impiegati, mai rintracciabili e spesso anonimi?

I rari “nuovi capitalisti” che si degnano di parlare ai giornalisti hanno spesso delle difficoltà a comporre le loro frasi.

E’ interessante che domandino anche un aiuto di Stato, come se avessero ricomprato le loro imprese per delle ragioni patriottiche.

Il disprezzo per l’opinione pubblica che manifestano la maggioranza dei grandi capitalisti serbi rallenta la formazione della nuova classe d’imprenditori nel senso ideologico e ci conduce a concludere che questa classe non ha alcuna intenzione di guidare il processo di modernizzazione verso quanto avviene nella maggior parte dei paesi sviluppati.

In realtà, la questione chiave riposa sulla stabilizzazione della classe capitalista alla fine di un decennio durante il quale la Serbia ha tentato di consolidare la sua democrazia.

Le società “create” da Nikola Pavicic (Sintelon), Miodrag Babic (Hemofarm), Predrag Rankovic (Invej), Ili Petar Matijevic (Industria della carne) hanno dichiarato delle cifre d’affari comprese tra i 30 e i 50 milioni di euro per il 2008, cifra che sarebbe importante anche in uno dei paesi più sviluppati.

Le società di Miskovic, Drakulic, Kostic, Vukicevic e altri uomini d’affari conosciuti fanno ugualmente parte della lista.

Se questa classe è arrivata a una certa stabilità, la sua influenza sullo Stato è proporzionale alla sua importanza nell’economia?

Traduzione di Stefano Vernole

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L’importanza di mantenere la neutralizzazione delle acque costiere dell’India

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La significativa crescita politica delle due nazioni più popolose al mondo – Cina e India – nel corso degli ultimi due decenni ha portato con sé anche un risvolto inquietante, spesso legato alla rivalità tra questi due grandi paesi. Appena fuori dal limite delle acque costiere indiane, sta crescendo la presenza della Marina cinese. Al momento è difficile capire se la presenza navale cinese sia puramente marittima, oppure voglia essere una minacciosa manifestazione di potenza (power play).
A prescindere dall’esatta natura della presenza navale di Pechino entro ed attorno alle acque costiere indiane, l’Oceano Indiano e il Mar Arabico rimarranno la fondamentale via d’approvvigionamento per molte nazioni del mondo – di fatto, una linea vitale – e tra queste vi sono sia la Cina sia l’India. Il problema è dunque come mantenere tale via d’acqua libera da rivalità, prepotenze o ostilità, ed assicurare che il commercio mondiale non sia interrotto a causa del ricorso alla forza tra queste grandi nazioni. Prima, però, vediamo i recenti sviluppi.
Una cosa va tenuta costantemente presente: dati i loro propri interessi e la prossimità o ostilità verso una o entrambe le nazioni qui in discussione, le potenze esterne cercheranno di trarre vantaggio dalla situazione problematica, qualora Cina e India non dovessero raggiungere un accordo chiaro sull’importanza di mantenere la neutralità delle vie d’acqua. Le condizioni potrebbero inaspirsi negli anni a venire, e la crescita prevista da quasi tutte le nazioni, Cina e India in particolare, risultare gravemente compromessa. In ciascun paese non mancano studenti di geopolitica, educati alla scuola imperialista britannica o seguaci del mitico equilibrio di potenza kissingeriano. Questi piantagrane non esiteranno a surriscaldare l’una o l’altra nazione, intimando alle autorità d’adottare politiche negative che peggioreranno le relazioni bilaterali nel loro complesso.
Siccome tali vie d’acqua riguardano la vita d’almeno 2,3 miliardi di persone (considerando solo Cina e India) si tratta d’una materia assai più importante di molte delle crisi che oggi dominano nei media internazionali. Se le rotte marittime lungo la costa indiana dovessero divenire sede d’ostilità, le ripercussioni si sentirebbero in tutto il mondo. L’importanza di mantenere la loro neutralità diventa perciò ancora più alta.

Lo sviluppo navale indiano

L’India non sta sviluppando una marina minimamente deterrente, laddove le forze navali costituirebbero un’aggiunta all’Esercito ed all’Aviazione nel quadro delle latenti ostilità continentali col Pakistan. L’India non sta sviluppando neppure una marina in grado d’interdire i mari al nemico. Una simile marina sarebbe, in linea di principio, una marina anti-cinese che cerca di condurre una strategia d’interdizione nel Mar Cinese Meridionale ed oltre. Come evidenziato dallo stratega statunitense Thomas Burnett, tale opzione ricalcherebbe “la vecchia flotta sovietica: concentrata sugli attacchi anti-nave e, in particolare, su quelli sottomarini. Nella sua forma più aggressiva, potrebbe essere interpretata da alcuni come una marina anti-statunitense, in virtù della sua modesta capacità di proiezione nel Golfo Persico”.
L’India sta altresì edificando una “marina coalizzata internazionale”, presupponendo che le rivalità continentali con Pakistan e Cina stiano scemando. Si tratta d’una forza per l’impiego in una coalizione a sostegno delle norme internazionali.
Sebbene appaia che qualcuno potrebbe temere questo tipo di Marina indiana, in realtà il suo sviluppo a lungo termine rispecchierebbe un’India sicura di sé e fiduciosa, decisa a fare la propria parte per la conservazione della sicurezza globale.
Nel processo di costruzione di tale marina, ancora in atto, l’India ha raggiunto alcuni obiettivi. Di là dal Mar delle Andamane, la Compagnia Marittima Indiana sta per costruire il porto di Sittwe nel Myanmar occidentale. La giunta birmana ha deciso la costruzione del porto per sviluppare la regione, ricevendo dal governo indiano un finanziamento di 120 milioni di dollari statunitensi. Il progetto dovrebbe richiedere tre anni, cominciando nel 2010 e finendo nel 2012.
Nel contempo, l’India è impegnata in un altro progetto nel Myanmar, riguardante la viabilità fluviale. Un porto sarà costruito sul fiume Kaladan nel quadro del Progetto di Trasporto Multimodale, per facilitare il movimento ai cargo che dallo Stato indiano del Mizoram si recano a Sittwe scendendo lungo il Kaladan. Sittwe si trova a 250 chilometri dal confine indiano, sulla costa nord-occidentale del Myanmar, dove il fiume Kaladan sfocia nel Golfo del Bengala.
Il rafforzamento della presenza indiana nel Mar delle Andamane non deriva solo dagli sviluppi negativi nella regione. L’interesse di Nuova Dehli ed il suo grado di coinvolgimento in Asia Sudorientale sono cresciuti costantemente nel corso dell’ultimo decennio, e di pari passo è andata la sua preoccupazione per lo sviluppo del bacino delle Andamane.
Nel 2003 a Yangon i ministri degli Esteri di India, Myanmar e Thailandia firmarono un accordo per potenziare le vie di comunicazione tra i tre paesi. Una volta completata, una strada di 1400 chilometri connetterà i popoli dell’Asia Meridionale e dell’Asia Sudorientale. Un altro progetto per il trasporto di gas dal Myanmar all’India attraverso il Bangladesh è stato al momento accantonato, ma se fosse recuperato il gasdotto partirebbe dai giacimenti di Shwe nel Myanmar, attraverserebbe gli Stati indiani di Mizoram e Tripura e il Bangladesh per tornare infine in India fino a Kolkata.
Oltre il Mar delle Andamane e il Golfo del Bengala, la Marina indiana sarà presto impegnata nelle Maldive, fornendo alla piccola nazione sud-asiatica protezione contro i pirati. Il ministro della Difesa indiana A. K. Antony ha recentemente visitato Male, capitale delle Maldive, incontrandovi il presidente Mohammed Nasheed. L’India ha acconsentito ad alleviare la preoccupazione di Male per la pirateria. Natanti della Marina e della guardia costiera pattuglieranno le acque attorno alle Maldive, infestate di pirati. Ciò aiuterà anche Nuova Dehli, secondo un analista indiano, ad assicurarsi la catena di isole Andamane e Nicobare.
La ragione immediata per rafforzare la cooperazione difensiva è quella di acquistare posizioni militari nelle Maldive per combattere terroristi e pirati; alcuni osservatori, impegnati a intorbidare le acque, affermano però che a lungo termine l’India mira a promuovere la sua deterrenza militare contro la Cina.
Alex Vines di Chatham House (RIIA), nella sua relazione sulle iniziative indiane e cinesi in Africa, nota inoltre un crescente corteggiamento dell’India a nazioni come Mauritius, Seychelles, Madagascar e paesi costieri quali Mozambico, Kenya e Tanzania. “Una base di sorveglianza indiana – afferma Vines – è stata recentemente aperta ne Madagascar settentrionale. Il suo scopo precipuo è proteggere la navigazione”. Vines osserva che tali legami commerciali non sono affatto nuovi, ma furono approfonditi in epoca colonialista. I Portoghesi usarono il Mozambico come scalo sulla rotta per Goa, la loro colonia in India. Nell’ambito del colonialismo britannico, scrive Vines, per un certo periodo l’odierno Kenya ed una porzione di Uganda furono amministrati da Mumbai.
Vines, rappresentante di quel vecchio arnese dell’imperialismo britannico che è Chatham House, interpreta questi sviluppi come le mosse dell’India per contrastare l’influenza cinese. La sorveglianza, a suo dire, serve a mantenere aperte le rotte marittime e tenere sotto controllo “l’espansionismo” cinese.

L’assertiva presenza cinese

La crescente presenza cinese nell’Oceano Indiano è molto discussa tra gli strateghi internazionali. Vi si fa riferimento definendola “strategia del filo di perle”, espressione coniata in un rapporto dal titolo “Energy futures in Asia” che fu compilato da Booze Allen Hamilton nel 2005 per il Pentagono. Quella politica è ufficialmente diretta ad assicurare gli approvvigionamenti di petrolio e le rotte commerciali della Cina, decisivi per il suo pacifico sviluppo. Non di meno, era guardata sotto una luce completamente diversa a Washington e presso certi influenti ambienti indiani. Il “filo di perle” corre dalla costa di Hainan in Cina attraverso i litorali del Mar Cinese Meridionale, gli Stretti di Malacca e l’Oceano Indiano fino al Mar Arabico e al Golfo Persico.
Secondo Lisa Curtis (Heritage Foundation) alcuni analisti indiani credono che la Cina stia perseguendo una strategia dal doppio volto: quieta Nuova Dehli con la maggiore interazione economica, ma nel frattempo accerchia l’India e la pone in pericolo. La Cina sta rafforzando i legami col suo tradizionale alleato, il Pakistan, e sta lentamente guadagnando influenza con altri Stati dell’Asia Meridionale. Ad oggi, gl’investimenti cinesi s’estendono dall’isola di Hainan nel Mar Cinese Meridionale alle coste degli Stretti di Malacca, incluso lo sviluppo portuale di Chittagong in Bangladesh; a Sittwe, Coco, Hianggyi, Khaukphyu, Mergui e Zadetkyi Kyun in Myanmar; a Laem Chabang in Thailandia; e Sihanoukville in Cambogia. L’attività cinese a protezione delle rotte marittime e degli approvvigionamenti energetici s’estende nell’Oceano Indiano, in Sri Lanka, nelle Maldive, nel porto pakistano di Gwadar fino alle isole nel Mar Arabico ed al Golfo Persico.
Sospettosa sulle motivazioni cinesi, o forse colpita da un attacco di paranoia, l’India ha tentato invano di persuadere il governo dello Sri Lanka a non concedere alla Cina lo sviluppo del porto di Hambantota, attualmente in corso. Una volta completato, Hambantota dovrebbe avere un magazzino di carburante per aerei ed una raffineria per il gas naturale liquefatto. La prima fase prevede impianti per il rifornimento delle navi che dirigono per le vicine rotte marittime, tra le più affollate al mondo. Il presidente cingalese Mahinda Rajapaksa ha assicurato che l’India non ha niente da temere, trattandosi di un progetto strettamente commerciale. Ci si aspetta però che gl’investimenti cinesi in Sri Lanka aumenteranno ulteriormente, data la probabile conclusione della guerra civile e la possibilità di cercare petrolio al largo delle coste nord-orientali dell’isola.
L’India non è tuttavia il solo paese a soffrire d’occasionali attacchi di paranoia. Qualcosa di simile avvenne in numerose nazioni asiatica quando l’India annunciò il completamento del suo sottomarino nucleare, “Arihant”, costruito in collaborazione con la Russia. Il malumore pakistano è comprensibile, ma i media russi citarono analisti militari secondo cui l’“Arihant” sarebbe rivolto non al Pakistan, ma alla Cina. Costoro, a quanto pare, dimenticavano che una marina in grado di proteggere l’interesse nazionale dell’India dovrebbe avere un mucchio di sottomarini nucleari. In quanto nazione dotata di armi nucleari, l’India dev’essere in grado di dislocare il proprio arsenale anche in posizioni non costantemente rintracciabili, ed i sottomarini nucleari sono al momento il miglior strumento a disposizione per farlo. L’India dovrà anche sviluppare un SLBM (missile balistico lanciabile da sottomarino) – non perché la Cina ce l’ha, o perché la farebbe pagare ai Cinesi, ma perché una forza navale sviluppate deve avere tutte queste cose per garantire una forte deterrenza.

Un accordo tra gli Stati litoranei

L’obiettivo sia di Beijing sia di Nuova Dehli dovrebbe essere zittire le speculazioni negative di simili analisti e stemperare il clima. Il che non significa abbandonare le proprie basi marittime. Esse sono avamposti particolarmente importanti in caso di crisi, non necessariamente una crisi militare; ma queste basi dovrebbero essere destinate a vigilare che il commercio marittimo sia condotto pacificamente e senza interruzioni. Queste basi sarebbero vitali per la fornitura di cibo, medicinali ed altri generi di prima necessità nel caso di cicloni, tsunami o altre grandi catastrofi naturali. La questione è come farlo.
Per cominciare, sia India sia Cina devono comprendere davvero l’importanza di questa via d’acqua. Permettere che diventi un teatro di guerra non è nell’interesse di nessuno. Tutt’al più può eccitare gli studenti di geopolitica che non credono nella pacifica coesistenza delle nazioni, pienamente accessibili l’una all’altra senza appartenere a blocchi di potere. Una volta che ciò sarà pienamente realizzato, entrambe le nazioni dovranno impegnarsi a creare un’organizzazione governativa di tutti gli Stati litoranei. Il suo obiettivo sarà esclusivamente quello di mantenere le acque in pace ed accessibili a tutti. Nessun’altra questione bilaterale ricadrà nella giurisdizione di quest’organismo.
Ciò non può essere fatto da Bangladesh, Sri Lanka, Myanmar, Pakistan o Maldive. L’iniziativa deve venire da India e Cina, e tutte le discussioni preliminari devono coinvolgere sia Beijing sia Nuova Dehli.
Tale accordo tra tutte le nazioni litoranee può basarsi sulla forma della Legge del Trattato Marittimo (LTM), con le debite variazioni per adattarlo all’area. Ad esempio, il “passaggio innocente” di cui si parla nella Legge del Trattato Marittimo, afferma il diritto di navi da guerra, commerciali e da pesca di passare senza avviso nelle acque territoriali d’uno Stato, purché ciò non pregiudichi la pace, l’ordine o la sicurezza di quest’ultimo.
La Legge sul Trattato Marittimo fa riferimento anche al “diritto di transito”, garantendo a tutti i vascelli e velivoli di passare attraverso o sopra gli stretti larghi meno di 24 miglia nel loro punto più angusto; pare una clausola degna d’essere adottata. Nel Pacifico Meridionale troviamo stretti del genere, tra cui quello di Malacca.
“Passaggio delle rotte arcipelagiche” è un altro termine utilizzato nella Legge sul Trattato Marittimo. Esso statuisce il principio del diritto di transito negli arcipelaghi; nel nostro caso i più importanti Indonesia e Filippine. Garantisce a navi ed aerei di passare indisturbati per o sopra le acque di un arcipelago, definite come l’area inclusa delimitata dalle linee di base delle isole più esterne di un arcipelago. Il passaggio per le rotte arcipelagiche è garantito nella parte IV del LTM.
Nell’accordo regionale, che includerebbe tutti gli Stati litoranei partecipanti, le leggi summenzionati potrebbero essere modificate, a beneficio di tutti, per adattarsi ai requisiti regionali. Ma ciò richiede un impegno genuino da parte delle maggiori nazioni, come Cina e India.

*Ramtanu Maitra è un analista indiano che collabora regolarmente con “Executive Intelligence Review”, “Indian Defence Review” e “Aakrosh”.

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